“Un cuore aperto al mondo intero”

Incontro del clero 8 febbraio 2022 - parrocchia XII Apostoli Chieti Scalo

cap. IV di “Fratelli tutti”
Introduzione

Un tema, quello di cui vogliamo interessarci oggi, di ampio respiro, di capitale importanza nella struttura della nostra Chiesa, un argomento di primissimo piano nella mente di Gesù, che si preoccupa nel tempo di suggerire ai suoi discepoli alcuni elementi significativamente costitutivi della Chiesa, che poi consegnerà a Pietro (Mt 16,18).
Ci risulta che pochissime volte Gesù abbia usato l’imperativo e rivolgendosi ai suoi, volendo fortemente responsabilizzarli, colloca in prima linea questo comando categorico: “andate in tutto il mondo” (Mc 16,15) e la scintilla di questo forte desiderio di Gesù si è accesa in tutto il mondo e, anche noi, accogliendo il suggerimento del nostro Pastore Padre Bruno, con il presente titolo “un cuore aperto al mondo intero”, vogliamo riaccendere il nostro cuore missionario.
E che io vi dica, per entrare con voi più direttamente nel merito di questo tema che “la Chiesa è tutta missionaria”, in tutte le sue connotazioni espressive, in tutte le sue sfaccettature di presentazione di se stessa al mondo, vi ho semplicemente ricordato, se ce ne fosse stato bisogno, il concetto principe dell’essere Chiesa.
Se mi permettete in fanalino di coda di questa mia introduzione, vorrei azzardare un riferimento di importazione matematica e dirò che l’idea missionaria nella Chiesa è il denominatore comune e i vari numeratori sono e devono essere divisibili e in funzione totale del denominatore e quindi che la Chiesa è appunto missionaria.
Ed ora affidiamoci al magistero della Chiesa e ascoltiamo le numerose citazioni riguardanti proprio la missione della Chiesa. Nel corso di questo piccolo studio che ho preparato mi sono accorto che le varie citazioni del magistero hanno mirabilmente impreziosito il concetto di missionarietà.
La Chiesa è tutta missionaria
“La Chiesa pellegrinante è missionaria per sua natura” (AG 2). Questa affermazione del Concilio Vaticano II l’ha riproposta Papa Francesco: «la Chiesa “in Uscita” è la comunità dei discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano» (EG 24). E ha aggiunto: “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa. […] La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie” (EG 27).
Già la Lumen gentium, ribadendo il compito di annunciare il Vangelo a tutte le genti (cfr Mt 28,20), indicava un cambio di modello ecclesiologico per la diffusione della Fede: “La Chiesa continua a mandare senza sosta araldi del vangelo, fin quando non siano pienamente costituite le nuove Chiese, e queste non siano in condizione di continuare, a loro volta, l’opera dell’evangelizzazione” (LG 17). Poiché “nella communio ecclesiale esistono le Chiese particolari, salvo restando il primato della cattedra di Pietro che presiede alla comunione universale della carità” (LG 13), ne consegue il principio della mutua interiorità di Chiesa universale e Chiese particolari: “Nelle e a partire dalle Chiese particolari esiste l’unica Chiesa cattolica” (LG 23).
Queste affermazioni teologiche sono state sviluppate dall’Ad gentes: “Tocca alle Chiese particolari già costitute continuare l’opera missionaria della Chiesa” (AG 6).
A compiere quest’opera il Concilio ha convocato l’intero popolo di Dio, facendo affidamento su laici ben formati e sul clero indigeno, da costituirsi con grande cura per un’efficace azione missionaria delle Chiese particolari.
San Paolo VI con Evangelii nuntiandi ci diceva che desiderava “rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunciare il Vangelo all’umanità del XX secolo”. E sottolineando l’evangelizzazione come vocazione propria della Chiesa, ne indicava il dinamismo: una comunità è evangelizzante quando è già stata evangelizzata.
Soggetto dell’evangelizzazione, dunque, è la Chiesa stessa e operai dell’evangelizzazione sono tutti (il Papa, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, i laici, le famiglie, i giovani): all’interno della Chiesa tutta missionaria, ciascuno deve svolgere il suo compito.
San Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio parlava di “nuova primavera” sostenuta da un’azione evangelizzatrice della Chiesa universale.
Papa Francesco nella Evangelii gaudium, propone un modello di Chiesa “in uscita” e una conversione missionaria della Chiesa, affermando che tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa sono missionari. Il soggetto dell’evangelizzazione è “tutto il popolo di Dio”, in quanto è “un popolo pellegrino ed evangelizzatore” (EG 111). E, precisa: “In virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa, e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare a uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati” (EG 120).
Nei mesi scorsi c’è stato l’avvio di un processo, speriamo inarrestabile nella Chiesa, che si svolgerà tra le diocesi e le comunità cristiane, cioè il Cammino Sinodale fra le Chiese, con lo stile di chi si mette in cammino, per rafforzare lo scambio, la riflessione e la collaborazione. Ma poiché fra il dire ed il fare c’è sempre una distanza consistente, il rischio è quello di lasciare le cose come sono, per cui ci dobbiamo mettere in gioco, tutti, avviando una più stretta e coinvolgente convinzione a lavorare insieme. Tutti dobbiamo sentirci attivi e appassionati nell’annuncio del Vangelo, la Lieta notizia che sa conquistare ancora la vita di ognuno nel suo quotidiano.
Il Sinodo è anche occasione favorevole per verificare e misurare a che punto si trova la nostra chiesa diocesana nel vivere e sostenere la missio ad gentes. Esso deve aiutarci a camminare insieme anche in ottica missionaria ricordandoci che la Chiesa, è “mistero di comunione” ed è inviata a tutti per realizzare il Mandatum Novum affidato dal Risorto: nessun battezzato deve ritenersi estraneo al compito di evangelizzare. Il lavoro missionario, perciò, non è appannaggio esclusivo di gruppi specializzati, delegati, né l’attività missionaria può essere confinata ai margini della Chiesa.
Che comunione e missione vanno insieme è evento scontato: un binomio assolutamente inscindibile, pena la non acquisizione dei risultati sperati.
Una singola persona, fosse anche il più grande annunciatore di Cristo, con una preparazione ottimale, se non è legato profondamente alla Chiesa, il suo annuncio ha valore molto relativo. Il Signore ha costituito una comunità, e solo una comunità è in grado di testimoniare le profondità dell’amore di Dio. È opportuno precisare che non si tratta solo di una fraternità ad intra, cioè tra coloro che condividono il Battesimo, ma anche ad extra come ci ha sollecitati papa Francesco: nella Chiesa in uscita.
Nell’introduzione all’Enciclica “Fratelli tutti” Papa Francesco loda San Francesco d’Assisi definendolo “Santo dell’amore fraterno”: “Questo Santo dell’amore fraterno, della semplicità e della gioia, che mi ha ispirato a scrivere l’Enciclica Laudato si’, nuovamente mi motiva a dedicare questa nuova Enciclica alla fraternità e all’amicizia sociale. Infatti San Francesco, che si sentiva fratello del sole, del mare e del vento, sapeva di essere ancora più unito a quelli che erano della sua stessa carne. Dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi” (FT 2).
Con l’Enciclica, “Fratelli tutti”, il Papa incoraggia l’aspirazione mondiale alla fraternità e all’amicizia sociale a partire dalla comune appartenenza alla famiglia umana e, dal riconoscerci fratelli perché figli di un unico Creatore. Richiama l’impegno alla fraternità e alla pace, compito che coinvolge tutti, espresso, in modo diverso, già nella Lumen gentium: “a questa cattolica unità del Popolo di Dio che prefigura e promuove la pace universale sono chiamati tutti gli uomini e a essa appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia tutti gli uomini che la grazia di Dio chiama alla salvezza” (LG, 13).
D’altra parte, chi per primo deve avere “Un cuore aperto al mondo intero” se non la Chiesa? Chi è chiamato a costruire la fraternità? A essere fraternità? Il Papa chiede ai credenti di sporcarsi le mani in questo impegno di costruzione di un mondo nuovo. Si potrebbe pensare che si tratti di un impegno personale, affidato alla sensibilità dei singoli. Ma il testo riverbera atteggiamenti e pratiche che rimandano con evidenza a tutti i componenti la Chiesa, e a un profilo preciso di Chiesa chiaramente sinodale. La pandemia ha mostrato chiaramente che siamo una sola famiglia umana fortemente collegata e assolutamente fragile: tutti nello stesso mare, anche se non sulla stessa barca, bisognosi di prendere coscienza che, in un mondo globalizzato e interconnesso, ci si può salvare solo insieme. Si può dire che nell’enciclica il Papa esprime ad extra per tutti, quello che già la Chiesa deve essere, e vivere, ad intra: chiede agli altri quello che già incombe come dovere a quanti, avendo ricevuto in dono la carità, sono chiamati a tradurla in quello che (il Papa) qualifica come “carità sociale” o “amore politico”: quell’amore che spinge a unirsi “per dare vita a processi di fraternità e di giustizia per tutti” (FT, 180).
Alla Chiesa e a ogni suo membro, dunque, incombe l’impegno di edificare il regno di Dio, di cui la pace e la fraternità sono anticipazioni.
Per noi presbiteri, “avere un cuore aperto al mondo intero”, credo richieda di mettere in chiaro due temi: l’origine della missionarietà e le motivazioni della missione.
L’ORIGINE DELLA MISSIONARIETÀ.
L’origine della missionarietà risponde alle domande: Vuoi essere di Cristo? Vuoi accettare la “vocazione” di essere Chiesa? Perché essere di Cristo, essere Chiesa equivale a essere missionario, alla cui base c’è l’esperienza sentita, gustata, di essere oggetto delle “viscere di misericordia” e dell’accoglienza gratuita di Dio: se l’accetti, ti trasforma e ti fa Chiesa, chiamato e mandato a dire a tutti che questa realtà è offerta anche a loro. Se non l’accetti o se non ti metti almeno su una iniziale accettazione, potrai fare molta filantropia e molta propaganda, ma non missione e non ne sentiresti neanche la necessità.
È necessario, perciò, ricercare continuamente le vene più profonde della missione, cioè approfondire e vivere le sue motivazioni più vere, le sue radici più evangeliche, quelle che si rifanno più strettamente all’insegnamento e all’esperienza di Gesù e delle prime comunità cristiane.
I cristiani, e il presbitero in particolare, sono quella parte di umanità cui è stato dato, senza nessun merito particolare, di pervenire alla “consapevolezza” di essere gratuitamente amati, graziati e accolti da Dio quando Gli eravamo nemici (Cfr Rom 5,6-11). È importante ribadire questo “punto di partenza” della missione. È vero che la fede porta inevitabilmente ad un impegno concreto per gli altri, ma va ribadito che essa è “prima di tutto” lasciarsi amare da Dio e accogliere “il Suo” impegno per noi.
È il “sentirci amati” da Dio che ci fa vivere: solo chi sa di essere accolto, così com’è, può accettare senza drammi il proprio limite. I nostri limiti e il nostro peccato non hanno fermato Dio, anzi ci ha raggiunto proprio dentro di essi.
Solo chi sa di essere da Dio accolto incondizionatamente, supera la paura e il sospetto di Dio: ricordiamo che sono stati la paura e il sospetto a far fuggire Adamo da Dio (cfr Gn 3,10). L’uomo quando resta nel proprio vuoto cerca di sfuggire alle ansie accaparrandosi cose e persone, nelle mille forme di egoismo che si conoscono.
Solo “la consapevolezza” di un Dio che ci ama per primo (cfr 1Gv 4,19) e che ci grida la sua fedeltà anche di fronte al nostro tradimento, ci libera dalla paura, sorgente degli egoismi. Gesù sulla croce ha reso evidente l’amore disinteressato di Dio per ogni uomo per cui è la croce che disattiva le nostre paure e i nostri sospetti nei confronti di Dio.
È necessario, perciò, ascoltare la Parola per sentirsi dire e per accettare di essere da Dio accolti nonostante il nostro peccato, anzi proprio nel nostro peccato. È “l’accettare” questa accoglienza di Dio che ci dà la possibilità di essere anche noi capaci di vera accoglienza degli altri.
Gesù, dicendo: “Fate attenzione a come ascoltate” (Lc 8,18), ci dice che l’ascolto della Parola precede il fare.
Non sai usare misericordia? È perché non hai ascoltato la parola di misericordia nei tuoi confronti.
Non sai perdonare? È perché non ti senti davvero colmo dell’amore e liberamente graziato da Dio.
Non sai essere solidale con i poveri? È perché non ti accorgi e non vivi della solidarietà di Dio nei tuoi confronti. Non hai ancora superato il sospetto di Dio, stai ancora fuggendo da Lui, con il tuo vuoto che cerchi di colmare con il possesso di cose e di persone.
Non t’impegni nell’annuncio? È perché non l’hai ancora, veramente, ascoltato tu.
Credo sia questo il punto di partenza su cui insistere!
L’accoglienza di Dio, libera e gratuita, non è riservata ad alcuni: è per tutti gli uomini. Infatti “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,16-17). È un’offerta già avvenuta e nessuno la può annullare.
È importante prendere coscienza di questo fatto, e richiamarlo continuamente alla mente perché ci fa capire il cuore di Dio, riempiendoci, così, di speranza nei confronti di questo nostro mondo e dandoci il fondamento del nostro impegno.
Anche noi, come Paolo, dovremmo vibrare di commozione al pensiero che Cristo “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Dobbiamo però stare attenti a non ritenere quest’amore, qualcosa di esclusivo: dobbiamo applicarlo a tutti gli uomini. A tutti vuol dire a ciascuno. Per ciascuna persona la verità più profonda è: “L’ha amata e ha dato se stesso per lei” (Ef 5,25). Dio ha un amore totale per ogni singola persona, a prescindere e assolutamente prima di qualunque sua risposta religiosa o morale. Quanto dice Isaia: “sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,4) non vale solo per il popolo d’Israele o per la Chiesa. A Israele e alla Chiesa Dio ha fatto il dono di conoscere e di percepire questo amore, ma la parola vale per tutti i popoli.
Dio è Padre di tutti, non solo di Israele o dei cristiani. È Padre di tutti a prescindere dalla nostra consapevolezza di essere riconoscenti che Lui ci ama. Un padre può essere libero di mettere al mondo un figlio, ma una volta che il figlio c’è, non può rinnegare il suo essergli padre. Dio non ci ama perché siamo bravi, ma perché siamo suoi figli. Ci ha voluto, generati e creati nel suo Figlio. Il suo amore non è meritato da noi, è gratuito: nasce dalle sue viscere di misericordia. È questa la passione di Dio per l’uomo, per ogni uomo. È questo il cuore del Padre fatto conoscere da Gesù. La missione di Gesù è stata di far conoscere il Padre e la sua passione per ogni uomo. Gesù “non si è vergognato di chiamarsi nostro fratello” (Eb 2,11), perché conoscendo il Padre, sa che dietro ogni uomo, anche il peggiore, il Padre vede Lui, il suo Unigenito amatissimo. Gesù, conoscendo il Padre, ci ha parlato della sua sollecitudine anche per uno solo dei suoi figli (cfr cap. 15 di Luca).
Il sogno di Dio, perciò, è il coinvolgimento di vita e di comunione con tutti gli uomini. È questa la ragione per cui tutti sono creati. Non ci sono esclusivismi e se ci sono privilegi, non sono per i più buoni o i più osservanti, ma per “gli ultimi”. Perché sono i più bisognosi. “Le viscere materne” di Dio si commuovono quando un figlio è in particolare situazione di bisogno, fisico o morale.
Per vivere questa preferenza del Padre verso gli ultimi, Gesù si è fatto solidale fino a identificarsi con chi è perduto, pertanto, nessuno può sentirsi abbandonato o maledetto, perché, dovunque e comunque si trovi, il Figlio è già sceso con lui.
Le preferenze di Dio esistono, ma non nel senso che tante volte le persone religiose si aspettano, come se l’uomo potesse meritare le attenzioni di Dio. Esse sono, invece, una necessità della qualità del suo amore, che sente il bisogno di volgersi con più attenzione e tenerezza verso il figlio che gli manca o è più bisognoso; come una madre ha particolare premura per il figlio malato.
La missione dei cristiani, e del presbitero in particolare, come quella di Cristo, è di far “conoscere il Padre”. La gioia di Dio è di essere capito come Padre. Questa conoscenza è di vitale importanza per tutti gli uomini. Sappiamo le conseguenze disastrose della falsa immagine che l’uomo ha di Dio: ritenendolo come un padre – padrone che con la sua presenza “forte” schiaccia le possibilità delle sue creature, l’uomo prende le distanze, per costruirsi “da solo”. È fatale, allora, che senta drammaticamente i propri limiti e la paura della morte e che cerchi di superarli rifugiandosi in cose e persone, nelle mille forme di egoismo e di avidità. Ogni male del mondo ha la sua radice ultima nella cattiva opinione che il menzognero è riuscito a farci avere di Dio. Gesù in croce, trasparenza perfetta della misericordia disarmata e disinteressata del Padre, mette in crisi ogni falsa immagine di Dio: un Dio così non può far paura! Un Dio così “debole”, così “bisognoso”, l’uomo è portato ad accoglierlo! E nella misura in cui si sente sicuro perché sa di avere ed accoglie Dio come Padre che supera le sue ansie e la necessità di conquistarsi uomini e cose per darsi una sicurezza gratificante. Ritrovando il volto del “Padre”, ritrova anche il volto dei “fratelli”.
Si comprende così che la necessità della missionarietà nasce non da una volontà di proselitismo, ma dalla conoscenza dell’amore del Padre per tutti e singoli i suoi figli.
Può capirlo solo chi ha compreso il cuore del Padre.
Il contrario di chiesa missionaria o di cristiano (presbitero) missionario non è una chiesa o un cristiano “con qualche lacuna”, ma una “non – chiesa”, un “non – cristiano”: chi si chiude ai fratelli “non conosce” il Padre, si esclude alla sua vita; “non conosce” il Figlio, si esclude da Lui, che si è fatto ultimo per salvare tutti.
LE MOTIVAZIONI DELLA MISSIONE.
La differenza tra cristiani e non cristiani non è da considerare in un maggiore o minore amore da parte di Dio e tanto meno in qualche capacità o merito degli stessi. Lo afferma chiaramente san Paolo: “Che dunque? Dobbiamo noi ritenerci superiori? Niente affatto! Abbiamo infatti dimostrato precedentemente che Giudei e Greci, tutti, sono sotto il dominio del peccato, … E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso!” (Rm 3,9.22-24.27). È importante sentire questa comunione con tutti gli uomini: tutti sotto il dominio del peccato e tutti graziati, gratuitamente accolti nel Figlio mentre ancora eravamo nemici (cfr Rm 5,10). La differenza sta nella “consapevolezza” o no di questa accoglienza già avvenuta. Consapevolezza che non vuol dire solo sapere (conoscenza intellettuale), ma stupore e gioia nel percepire questo dono totalmente gratuito, e poi anche la sua accettazione: è il gustare fin nelle intime profondità l’esperienza di essere accolti, la sensazione di vivere la compagnia di Dio, la percezione inaudita di essere chiamati e resi capaci di tessere una relazione di figli.
Ci si potrebbe domandare: Perché Dio fa a qualcuno (ai cristiani) il dono di questa consapevolezza? Non perché sono più bravi, non perché li ami di più, ma per il suo modo di agire, potremmo dire per la sua pedagogia: sceglie qualcuno “in funzione” degli altri. Fa sapere, fa sentire, fa prendere coscienza ad alcuni perché questi, accogliendo e corrispondendo alla Sua relazione, ne siano talmente presi e coinvolti da sentire il bisogno di farla cogliere anche agli altri: perché gli altri, vedendo le conseguenze che questa accoglienza provoca, sentano curiosità, interesse, simpatia, attrazione per quella che, per dono di Dio, è la loro stessa vocazione. L’elezione, si può dire, è per amore degli altri; il ruolo è diventare per gli altri “il segno” di ciò che Dio ha progettato anche per loro, di ciò che anche loro, sono chiamati a diventare. Anche le chiamate di persone singole sono sempre legate ad una missione; i due aspetti vanno sempre insieme. Dicendo Chiesa non si può pensare solo al significato di chiamati, ma di chiamati in vista di essere mandati.
Il cristiano è uno “chiamato e inviato”. Essere inviati non deve essere sentito solo come un dovere, un qualcosa che si aggiunge, quasi un di più: deve essere percepito come una componente costitutiva dell’essere cristiani.
L’accoglienza che il Padre fa di ogni uomo “mentre ancora gli è nemico” (cfr Rm 5,10) non è un abbraccio generico, ma un essere accolti “nel suo Figlio”: chi accetta di essere accolto nel Figlio, accetta anche che il suo Spirito cambi l’orientamento della propria vita. Perché è un essere coinvolti, trasformati da Lui. È un lasciarsi conformare a Cristo. Il cristiano, pertanto, nell’unica vocazione, vive una duplice esperienza: quella di sentirsi amato dal Padre e quella di essere reso capace di amare il Padre e quelli che Lui ama, tutti gli uomini, a partire dai più bisognosi; quello di sentirsi “chiamato” e quello di sentirsi “inviato” al mondo per vivere verso i fratelli l’amore ricevuto dal Padre.
Il cristiano è così costantemente chiamato ad approfondire la conoscenza di Cristo, andando all’essenziale.
L’ascolto della Parola e l’Eucaristia fanno percepire “l’essenziale” di Cristo: il figlio che il Padre ha mandato al mondo “a cercare ciò che era perduto” (Lc 19,10). Quanti sono già stati accolti sono associati a questa stessa missione di Cristo: sono resi capaci di morire ai propri desideri, ai propri orizzonti, ai propri progetti, per essere totalmente dedicati a Gesù e al Vangelo. Per ripercorrere la stessa strada che li invia al mondo per essere, nella parola e nei gesti di solidarietà e di liberazione, annunciatori della vicinanza di Dio e della sua offerta di comunione. Un cristiano non è mai “a caso” in nessun posto. Dovunque si deve sentire “chiamato” e “inviato”. Se è vero che i cristiani e le comunità non sono fine a se stesse, ma “inviate” al mondo, tutti i doni che Dio fa a ciascuna di loro non vanno ritenuti solo per sé, come se fossero dati in esclusiva, ma vanno percepiti come realtà da condividere.
Purtroppo, il punto di partenza, dato per scontato e perciò poco riflettuto, è la passione di Dio per l’uomo. Si rischia di non avvertire quanto abbia di “incredibile” questa passione. È qualcosa che non nasce dai nostri ragionamenti, né è prodotto di sforzi umani. È “la Buona Notizia”, è la novità assoluta: mentre in tutte le religioni l’uomo si sente a servizio di Dio, nella fede cristiana è Dio che si pone al servizio dell’uomo. Nella vita di Gesù, e ancor più nella sua morte, si conosce fino a che punto arriva questo “servizio” di Dio nei confronti dell’uomo. Dio, non solo parla con l’uomo e cammina con lui, ma è un Padre che gli va incontro fino allo “svuotamento di se stesso” (cfr Fil 2,5-11), che si prende cura del male del mondo, che si espone alle nostre contraddizioni e alle nostre violenze, che per fedeltà all’amore per il mondo arriva addirittura a dare quanto ha di più caro, la vita del Figlio (cfr Gv 3,14).
Il termine “Passione” rimanda a due esperienze apparentemente opposte: è amore sviscerato per qualcuno (o per qualcosa), ma significa anche sofferenza e dolore. In Gesù la passione intreccia questi due significati: Egli, infatti, “li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Noi pensiamo che la salvezza dell’uomo consiste nel morire per Dio: invece consiste nel fatto che Dio muore per noi. Specialmente la nostra vocazione fa parte di questo intreccio di vita e di servizio tra il Padre, Gesù e il mondo. Nella misura in cui accogliamo l’amore del Padre, la sua tenerezza, la sua misericordia, la sua solidarietà, ci sentiamo dire “va e anche tu fa lo stesso” (Lc 10,37). Siamo resi capaci di fare questo, perché credere vuol dire essere dallo Spirito Santo resi conformi a Cristo: cioè essere assunti nella sua esistenza, che è un’esistenza donata al Padre per il mondo. Il dono della consapevolezza è accompagnato dal dono della capacità di “rispondere” all’amore gratuito: credere vuol dire accoglienza, lasciarsi coinvolgere dalla compagnia di Dio, lasciarsi trasformare dal suo Spirito, che ci conforma come Cristo.
Il cristiano è pertanto capace di accogliere Dio e gli altri, capace di tenerezza, di compassione, di gratuità; capace di libertà nei confronti degli idoli del potere, del denaro, dell’inimicizia, del privilegio, dello sfruttamento. È “profeta”.
Una vita vissuta così svela il destino di ogni uomo e fa comprendere chi è l’uomo vero secondo Dio. Questa è vocazione di tutti.
La bellezza di una vita così impostata diventa “forza di attrazione” che propone e invita: è missione.
Evangelizzare perciò è immettere linfa nuova nella vita di un uomo e nella società in modo che tutti si scoprano capaci di vivere quella fraternità universale cui ci ha chiamati Gesù.

Mons. Michele Carlucci