Dialogo e amicizia sociale nel cap. 6 di Fratelli tutti

Alla luce della sapienza patristica

Mauro Palmieri

Introduzione e sguardo breve sul cap. 6 di FT
Ringrazio l’Arcivescovo per l’invito e la benevolenza e ciascuno di voi per la pazienza perché siamo tutti maestri in Israele e quindi è più difficile ascoltarsi tra pari!
Faccio subito una premessa metodologica: ci sono due cose fondamentali da tener presenti: il contesto e i generi letterari. Qui il contesto è un incontro presbiterale dove dunque dovrebbe essere già nota cosa sia la fraternità (almeno quella che ci costituisce tali per la comune appartenenza al Sacramento dell’Ordine e che, come ribadisce Lievito di fraternità 23, è la condizione che manifesta il Vangelo di Gesù; cf. LG 28), ma oggi questo incontro ha anche un volto penitenziale e, quindi, il genere letterario non sarà omiletico, né accademico, ma piuttosto una meditazione quaresimale all’interno di un percorso sinodale. Con pochissime pennellate parafraserò le linee portanti di questo cap. 6 di FT e poi offrirò una griglia di lettura del tema alla luce della sapienza patristica.
Fratelli tutti si apre con l’evocazione di una fraternità aperta, che permetta ad ogni persona di essere riconosciuta, valorizzata e amata al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo dell’universo in cui è nata o viva… questo è da sottolineare perché viviamo in un contesto culturale dove dobbiamo sempre toccare, vedere, verificare, essere al centro dell’attenzione altrimenti subito scatta un qualche delirium. La fedeltà al Signore è sempre proporzionale all’amore per i fratelli. Tale proporzione è un criterio fondamentale di questa Enciclica: non si può dire di amare Dio se non si ama il fratello: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
Il primo passo che Papa Francesco compie è dunque quello di compilare una fenomenologia delle tendenze del mondo attuale che sono sfavorevoli allo sviluppo di una fraternità universale.
Il Pontefice osserva il mondo ed ha l’impressione generale che si stia sviluppando un vero e proprio scisma tra il singolo e la comunità umana (cf. n. 30).  Tant’è che ad un certo punto scrive: «Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”» (n. 35). E così monta i tasselli del puzzle che illustra i drammi del nostro tempo.
Poi Francesco riassume alcuni verbi usati in questa Enciclica in una sola parola: dialogo. «In una società pluralista», scrive il Pontefice, «il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale» (n. 211), che a noi piace tanto, perché siamo tutti utilitaristi e bravi a piegare le cose e a strumentalizzare anche le persone per gli obiettivi da raggiungere.
Ancora una volta, si esprime una peculiare visione dell’amicizia sociale fatta di costante incontro delle differenze. Il Papa nota che questo è il tempo del dialogo. Tutti scambiano messaggi sui social, grazie alla rete eppure si è sempre più soli, arroccati dentro un castello immaginario perché questa è la “virtualità”, non è la realtà… e tuttavia spesso il dialogo si confonde con un febbrile scambio di opinioni, che in realtà è un monologo nel quale predomina l’aggressività. Nota pure acutamente che questo è lo stile che sembra prevalere nel contesto politico, che ha, a sua volta, un riflesso diretto nella vita quotidiana della gente (cf. nn. 200-202).
«L’autentico dialogo sociale presuppone invece la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro a prescindere e non solo secondo le nostre empatie, accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi» (n. 203) – aggiungo – senza quell’idea subdola del voler annettere e colonizzare l’altro al mio pensiero, al mio mondo… si parla tantissimo oggi di “empatia” ma spesso l’empatia è declinata con tutta quella variegata scala di ricatti psicologici nei rapporti con le persone. Invece, cogliere la dinamica della fraternità, il suo, potremmo dire, carattere esistenziale, «aiuta a relativizzare le nostre idee (che non sono degli assoluti), almeno nel senso di non rassegnarsi al fatto che un conflitto insorto da una disparità di vedute e di opinioni prevalga definitivamente sulla fratellanza».
In questo senso, dialogo non significa affatto relativismo, questo dovrebbe essere ormai chiaro per tutti. E, come già aveva scritto nell’Enciclica Laudato si’, il Papa afferma che, se a contare non sono verità oggettive né princìpi stabili, ma soltanto la soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle necessità immediate, allora è naturale che le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e ostacoli da evitare. La ricerca dei valori più alti si impone sempre (cfr. nn. 206-210).
L’incontro e il dialogo sono chiamati a farsi «cultura dell’incontro», che significa la passione di un popolo nel voler progettare qualcosa che coinvolga tutti; e che non è un bene in sé, ma un modo per fare il bene comune (cf. nn. 216-221) e dove ogni processo di integrazione certamente è più difficile e lento… ma dobbiamo anche capire che la pace nelle relazioni non può essere irenica, è invece conquista dentro i conflitti che non devono spaventare o bloccare. Il problema è che anche nella Chiesa spesso c’è un parlare che è mellifluo, di facciata, diplomatico… ma la diplomazia si sposa bene con l’ipocrisia; dire la verità con carità, anche quando fa male è molto più terapeutico che lasciare le cose in “sospeso” con quello stile che amo definire da “educande dorotee”, dove si è più attenti alle forme che alla sostanza (non si può alzare la voce, “si fanno le mosse” e non si parla in faccia…falsa tolleranza (221). Gesù ha attaccato solo l’ipocrisia perché da buon ebreo sa che la vita non si regge sull’ortodossia, ma su un “ortoprassi” e dunque la legge non è mai sopra la persona, che altrimenti si può uccidere in nome della legge.
La sfida è dunque creare processi di incontro che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze e dove il soggetto di tale cultura sia il popolo (aspetto fondamentale della sinodalità)… ma chiediamoci: «Quando il popolo viene ascoltato nei discernimenti “alti” a livello ecclesiale?» (es. Sinodo tedesco).
Perché, tradotto, non basta sentirsi “soci,” ma dobbiamo vivere da fratelli e sorelle! L’essere soci è una relazione imperfetta, pur se utile, perché permette di consolidare i vantaggi personali. Ma la parola “prossimo” acquista invece il suo significato di gratuità relazionale come pienezza di relazioni sociali, oltre gli stretti interessi diretti, e apre ad un futuro (102).
Cosa significa allora vivere da fratelli? Ed è ciò che cercherò di condividere oggi con voi alla luce di alcune immagini patristiche. Ma prima, per concludere questa introduzione al capitolo, richiamo alcuni passaggi del testo sulla gentilezza; un testo preziosissimo, che si può riproporre anche nelle nostre comunità: «La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, e quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti». (n. 224).
E vorrei leggere la fraternità proprio come stile di vita, che supera ogni confine, e genera relazioni che vadano oltre il mio o il tuo, per creare il “nostro”!

Sguardo patristico
Per i Padri si tratta di rendere ragione di quella che è una speranza alta, che cosa sia la fraternità e il rapporto tra libertà ed esperienza fraterna. Agostino nell’XI Libro delle Confessioni dice: «Io so cosa è il tempo ma quando mi chiedono cosa è, non so spiegarlo». Così, allo stesso modo, è un mistero la fraternità, se pensiamo che Gesù vive per 30 anni una normale vita comunitaria, di famiglia e i discepoli sentono l’esigenza di stare insieme e di leggere insieme gli avvenimenti… non è una costrizione, ma una scelta liberante. La fraternità non parte dunque dalle nostre empatie o affinità elettive, ma da tre colonne portanti: esigenza liberante, che per noi innanzitutto è l’Eucarestia (anche se per molti all’inizio è un’esperienza alquanto confusa); ascolto, che poi si elabora nelle relazioni fraterne come discernimento e un ritmo alla vita.
La fraternità è un intreccio di relazioni che genera un ritmo. Alcuni testi e vissuti fondatori spiegano la fraternità attraverso una sintesi per immagini. Vorrei richiamarne alcuni testi, che per immagini dicono il mistero di ciò che realmente significhi vivere la fraternità intessendo una casa ospitale per tutti.
Pacomio, che forse per tanti è un illustre sconosciuto, nella sua Vita, ormai anziano, ha una visione: vede la sua epoca come un abisso di buio, e in questa realtà di tenebra si muovevano tanti uomini, si sentivano voci, e nel buio si vedeva solo una colonna al centro di questo luogo oscuro e tanti uomini e voci che si rincorrevano… Ad un certo punto, uno diceva: «Ecco, la luce è qui”», e tutti andavano dietro quella voce; un altro diceva: «No, ecco, è qua», e tutti andavano dietro a quell’altra voce… Praticamente, tutti giravano su stessi e non combinavano nulla, ed era profondamente buio… Infine, egli riconosce nell’oscurità alcuni suoi fratelli che camminavano tenendosi uniti per timore di perdersi, l’uno le mani sulle spalle dell’altro, e solo quattro fratelli che erano davanti vedevano una piccolissima luce, mentre gli altri non vedevano nulla, ma tenevano le mani sulle spalle del fratello che stava davanti, e tutti dietro a questa piccolissima luce. Ad un certo punto, questa fiumana di gente, che si muoveva in mezzo ad un caos di persone che giravano su se stesse, questa teoria di uomini arriva a vedere che questa piccola luce giungeva ad una botola dalla quale si accedeva ad una immensa prateria illuminata… Pacomio si sveglia ed un angelo gli spiega la visione.
I fratelli che vedono la luce e mostrano la via agli altri sono quelli che amano davvero il Signore con retta fede e la fraternità è andare insieme (non esistono navigatori solitari per la nostra fede) dietro ad una piccolissima luce che solo alcuni vedono ed altri si fidano e vedono attraverso l’affidamento. La piccola luce è il Vangelo – dice l’angelo – e gli altri che girano attorno a se stessi sono quelli che vanno dietro alle varie ideologie o mode del momento, che dicono: «Ecco, la salvezza è qua (è in questo piano pastorale, in questo progetto!)» … «No, ecco, la salvezza è là (è in quell’idea geniale e risolutiva che ho trovato, è in quella tecnica o linguaggio che ho elaborato!) ma in realtà è soltanto un girare intorno a se stessi.
«Ma perché – domanda Pacomio – il Vangelo è soltanto una piccola luce nella nostra vita?». Gli viene risposto: «La luce è piccola perché nel Vangelo a proposito del regno è scritto: ‘è simile ad un granello di senapa’…», ad un po’ di lievito, è piccolo… ci devi fare pace! (cf. Pacomio e i suoi discepoli, Regole e scritti, Qiqajon, 192).
Il senso di questo testo è molto eloquente perché dice il mistero della vita fraterna: l’importante è poter vivere la relazione di affidamento non in rapporto ad una persona, un uomo, una donna per quanto carismatici, o in rapporto ad una ideologia (altrimenti anche la fede diventa ideologica), ma in rapporto alla direzione unica del Vangelo che è però luce piccola, non si impone, ma chiama, attira e invita alla libertà, che è tutto il contrario di una certa ars capturandi che spesso, come Chiesa e come singoli, viviamo: le persone non dicono il successo della nostra vita… sarebbe una logica profittuale, non evangelica, e che ci farebbe cadere nel volto poliedrico dell’ipocrisia. Mi ha sempre inquietato la pagina di Mt 23,15: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo prosèlito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geènna due volte più di voi» … Non sono nostre quelle persone, non ci appartengono!
Un testo eloquente che, nella sua semplicità, è fondativo della bellezza del mistero della vera fraternità, del vivere una esperienza fondativa di fraternità sotto la guida del Vangelo. Benedetto riprenderà questa immagine di Pacomio che vive 2 secoli prima di lui nel Prologo della sua Regola.
L’esperienza di una vera fraternità chiede anche una distanza che non è separazione, ma salvifica (anche Gesù con la barca si “distanziava un poco da terra”!). Anche Benedetto, in tal senso, equilibra la Regola muovendosi tra due estremi, quasi a formare un paradosso. Tale paradosso è dato dalla relazione che fa intercorrere tra separazione e fraternità: attraverso di esse, egli opera l’equilibrio necessario per garantire, da un lato, l’accoglienza aperta a tutti e, dall’altro, la custodia del cuore (Origene ha pagine di fuoco sulle “prostituzioni del cuore”… afferma che se il nostro cuore è un mercato dove tutti passano a loro piacimento noi vivremo sempre da “prostituti”, sfilacciati nel cuore). Tra fraternità e separazione vi è un legame profondo in Cristo se comprendiamo che chi accoglie non è un soggetto solitario, ma sempre una comunità in “esodo”, che deve essere vigilante affinché lo spirito del mondo non entri nel nostro stile di vivere la fraternità. De Vogüé ed altri arrivano fino ad affermare in maniera eccellente, che dalla qualità della separazione dipende la vera fraternità. Su questa scia, questo paradosso è espresso in termini di estraneità e stabilità dove estraneità non significa ciò che intendiamo noi in italiano (faccio una analogia con 1Re 19 dove quella voce di silenzio tenue è udita nella solitudine, che non è isolamento), così la separazione è una caratteristica essenziale della vita fraterna, ed ha radici antiche e profonde già nei Padri del deserto, dove era vista come l’essere accolti sotto la tenda di Dio e non cercare il fratello per rimandarlo a me stesso. Tale tenda è dunque quella abitazione dove dobbiamo desiderare restare con il fratello, sapendo allo stesso tempo però, che rimaniamo sempre peregrinanti in questa storia.
«L’itinerario della fraternità è quindi una specie di emigrazione, un cammino durante il quale noi spostiamo la nostra tenda sempre più in là (ovviamente in senso allegorico) verso la terra promessa che è Dio stesso, sentendoci perciò mai accasati su questa terra. Proprio nell’ambito di questa concezione della vita trova spazio per fiorire il culto della fraternità per i Padri. Siamo tutti degli stranieri ospitati dal Signore sotto la sua tenda; di conseguenza deve essere necessariamente spazio di fraternità verso gli altri». (Cf. A.M. Cànopi, Mansuetudine: volto del monaco, 389).

Nel c. 53 anche il patriarca d’Occidente legge infatti separazione e fraternità come manifestazioni del medesimo amore: seguire Cristo, ricevere Cristo». È un problema di prospettiva: – se ci pensate – se effettivamente ogni fratello è un nomade e non qualcuno di cui appropriarci, perché in continua ricerca di quel Dio che è sempre oltre, proprio in questa ricerca costante viene a radicare il nostro rimanere per amore (questa è l’amicizia secondo Gv 15) e la nostra unica stabilità possibile poiché la stabilità nella vita, in primo luogo, sussiste nella stabilità del cuore, e se questa venisse a cedere, verrebbe meno tutto il resto (es. ne abbiamo tutti esperienza… ma quando si lascia il sacerdozio o fallisce un matrimonio, con tutte le varianti possibili e immaginabili… c’è sempre però alla radice una “non stabilità del cuore”. La vera domanda non è “perché è finito quel rapporto? Ma su cosa è stato costruito?”).

Un’altra immagine per avvicinarci a cogliere il mistero del vivere la fraternità la prendo da un apoftegma dei Padri del Deserto, nel quale: «Ad un certo punto ad un giovane che si lamentava della difficoltà dello stare insieme agli altri, del vivere con gli altri e di sopportarsi reciprocamente, l’anziano risponde: ‘Chi vive con dei fratelli non deve essere un cubo, ma deve essere una sfera per poter rotolare verso l’altro’». (I Padri del deserto, Così dissero così vissero. Apoftegmi, J-C.Guy 1997).
L’immagine della sfera come figura della fraternità è un’immagine bella perché indica una arrendevolezza, un modo per far spazio all’altro perché possa trovare nella mia vita il suo spazio di libertà (è questo è già un superamento di una lettura della croce non in modo masochistico, ma come misura dell’amore, senza se e senza ma, da declinare e tradurre esistenzialmente però… altrimenti saremmo delle monadi!). Certamente questa immagine dice molto dello stile di fraternità, ma sicuramente il nostro contesto culturale è molto più complesso dell’epoca di cui parla questo abba che si chiamava Matoes.
In questo senso mi ha stupito, ed è sollecitante, l’immagine che il Santo Padre ci offre al n. 215 di questo nostro capitolo, dove – mi sono accorto – che Francesco, certamente inconsciamente, con audacia, corregge l’immagine patristica della sfera con l’immagine del poliedro. Lo aveva già fatto nell’Evangeli Gaudium dove per spiegare cosa fosse la fraternità indica che il modello non è la sfera, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro; il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità le quali mantengono così la loro originalità…e questa è la bellezza del vivere la vita fraterna, che non è una realtà di perfezione, anche se all’inizio ciascuno di noi probabilmente nell’esperienza di fraternità e di amicizia cerca una qualche perfezione che lo completi (questo è un po’ un retaggio di certa schizofrenia platonica, ma la radice giudaica dalla quale veniamo vede sempre l’uomo come una totalità (basti leggere il testo di Gen 2) … le dolci metà che devono completarsi sono fantasie romantiche che non hanno diritto di cittadinanza perché ognuno di noi resta sempre una totalità che si incontra con un’altra totalità) e, in questo senso, la vera fraternità è una apertura all’altro come spazio al venire di Dio.
Papa Francesco usa questa immagine per indicare una teoria a proposito della società globale, ma in realtà a mio giudizio è un’immagine profondamente rivelativa della vita fraterna. Di fronte a tutto ciò che elimina le parti o le parti che hanno pretesa di costituirsi in modo autoreferenziale, il modello del poliedro permette di pensare un’unità che non solo mantiene la pluralità da cui è composta, ma la favorisce costantemente. I Padri lo avevano perfettamente intuito, pur non usando l’immagine del poliedro, che la vera vita fraterna, esalta la singolarità, la differenza, la custodisce, ma anche la purifica, la corregge e la plasma… vivere insieme non va da sé oggi, non è affatto un rotolare verso l’altro, non è affatto andare dietro ad un modello che delimiti e determini tutti i particolari… non è un’unità qualsiasi, generica, non è uniformità.
Il modello è il poliedro proprio perché riflette la confluenza di tutte le parti che in esso mantengono la propria originalità; un’unità nella diversità – questa è la sfida – che però non è solo teorica perché col cervello lo sappiamo tutti, l’unità nella diversità, ma è da vivere, un’armonia, un equilibrio da ricercare ogni giorno di nuovo a partire dalle bellezze e dalle fragilità, dalle eccellenze e dalle disarmonie di ciascuno, dai doni e dalle distonie.
Questa immagine vale per tutte le relazioni… anche nell’Amoris Laetitia l’immagine è utilizzata a partire dalla famiglia, dalle provocazioni, dagli scandali, dai fallimenti e disarmonie che si sperimentano nella famiglia come in tutti i rapporti importanti nei quali investiamo tempo ed energie, e il meglio di noi stessi.
La sfera – di cui parla Matoes – è simbolo della regolarità assoluta e persino della divinità; il poliedro invece è simbolo della comunità umana che, con pazienza, con dolore, cerca la propria armonia ispirandosi alla piccola luce, il Vangelo di Gesù. Il singolo può realizzarsi non solo mirando alla somiglianza con il Signore, ma ogni giorno aprendosi alla sofferenza di accogliere l’altro…
Mi permetto una analogia: è come nella dialettica legge/grazia… se pensiamo che siano le nostre iniziative pastorali che giustifichino il nostro essere e ci diano identità, allora siamo giustificati dalle opere della legge; allo stesso modo, vivere la fraternità non è fare cose o iniziative, ma uno stile, la forma del vivere.
La vita fraterna vive del registro dell’imperfezione, incontra il limite, il disastro morale, la debolezza, l’irregolarità, a volta persino la perfidia, l’instabilità dei comportamenti, la stanchezza, ma tende a incorporare e ad incarnare la piccola luce del Vangelo, che è sempre tensione (solo un folle può asserire di viverlo nella sua interezza il Vangelo!) ma allo stesso tempo orizzonte concreto, reale, delle nostre scelte, unico paradigma del nostro sentire, pensare, ragionare.
Il problema è che noi pensiamo che le nostre analisi sociologiche valgano e siano più veritiere del Vangelo come se il Vangelo fosse qualcosa di ideale e non la realtà vera ed unica della storia (questo emerge quando noi pensiamo: «Eh, sì, il Vangelo… mica si può risolvere tutto con il Vangelo… mica si può leggere tutto con il Vangelo… la vita è fatta di cose concrete!» e non ci accorgiamo dell’emorragia che facciamo subire alla nostra fede perché questo modo di pensare non è altro che negazione dell’Evangelo!
Sulla scia di ciò che sto dicendo vi racconto un aneddoto. Ho avuto la grazia di partecipare a cinque corsi di esercizi spirituali con il Card. Martini. Ad uno di questi, tenutosi a Rho (Mi), due preti di Milano, con la puzza sotto il naso, ci dissero: «Eh, sì, il Cardinale è bravo… ma si occupa solo della Trinità, al massimo può arrivare alla Madonna!». Sono riuscito a rimanere calmo, ma ho risposto: «Certo, perché voi invece pensate di essere pure originali perché arrivate all’uomo e capite l’umanità senza passare per la Trinità o la Madonna!». Ecco, capite, è proprio questo il vulnus della fede che non ci fa essere contagianti… «Lui era Carlo Maria Martini e ha fatto la storia… noi pensiamo di essere più originali perché sappiamo capire e incontrare l’uomo senza passare per la Trinità o la Madonna, ma questo rivela che consideriamo occuparsi della Trinità o della Madonna come di qualcosa di astratto, che non attenga al reale, alle cose vere della vita… è, alla fine, una forma di ateismo implicito… e per questo non lasciamo nessun segno nella storia perché tutto il resto non contagia! ».
La nostra identità viene dal Vangelo e dal rapporto personale con il Signore Gesù, non dalle cose che facciamo forse anche illudendoci che le stiamo facendo per il Signore (questo si vede nella pretesa a volte conscia, più spesso inconscia, che noi preti, consacrati, abbiamo nel pensare che i laici debbano vivere attaccati alle nostre tonache… questo è clericalismo… perché la verità sottesa è che solo se questo accade ci sentiamo giustificati, cioè c’è una identità di senso al mio agire e operare, invece non è per nulla così, perché la mia identità non la ricevo dal successo o dal tributo delle persone, ma dal Signore e dal rapporto con Lui, che – ci direbbe san Paolo – nella misura in cui è vero, reale, profondo, di suo naturalmente si riverbera e si trasmette ai fratelli (queste sono le opere, ma opere della fede, non della legge!).
Se il Vangelo – vuole suggerire l’immagine di Pacomio – non è la nostra ragione di vita, la ratio interpretativa del mio modo di pensare, ragionare, scegliere, amare, io, come discepolo di Gesù, come uomo, prete, consacrato, sono un fallito perché farò delle cose per gli uomini forse anche pensando di farle per servire il Signore, ma in realtà le faccio per me stesso, per dare un’identità di senso, di significato a qualcosa che però tocca più il mio ministero in quanto “fare” per non entrare in crisi, che il mio “essere”, che invece riceve identità da un rapporto, quello con il Signore, che non è ideale, etereo o ideologico ma reale, in quanto Persona vera e propria (lo sappiamo tutti che è una Persona, Gesù, lo predichiamo agli altri, ma non solo teoricamente, perché se è vero lo si vede dalle conseguenze esistenziali dell’incarnazione nella nostra vita… Vi sarà capitato di ascoltare un’affermazione che sembra innocua: «Eh, che sono Gesù Cristo io!». Questa affermazione nega l’incarnazione, nega che io possa vivere ciò che ha vissuto Gesù nella carne… è doceta! Anche gli avversari o coloro con i quali i Padri si sono confrontati non hanno mai detto di essere doceti, ma di fatto lo erano…
Perché solo se è reale e la realtà della Sua carne si prolunga nella carne di mio fratello/sorella allora posso costruire vera fraternità, altrimenti vivremo tutto in modo “ideologico” e saremo doceti. Guardate, c’è una forma doceta che serpeggia soprattutto nel ragionare dei preti/consacrati e parte dall’idea medioplatonica che lo spirito elimini la materia, l’umano… niente di più falso, anche demoniaco nel senso che divide… Dio invece unisce… (vi confesso, per questo, una certa allergia nell’usare il termine “spirituale” perché per i non addetti al mestiere rischia di generare forti equivoci… se pensate che prima di Nicea una delle accezioni del termine pneuma era “nome personale di Cristo”… se inteso male il termine porta su derive “spiritualoidi” molto pericolose!); sull’altro versante, c’è il pensare che più siamo accomunati alle fragilità umane, che però spesso sono giustificazioni alle nostre voragini e non fragilità nel senso di “costitutivo” dell’umano, e più siamo uomini… invece, ci direbbe Basilio che così creiamo solo “connivenze e patti del vizio”… GS 41 ci ricorda che solo «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo». O come direbbe Terenzio “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” = “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo perché sono uomo”.
L’immagine del poliedro dice proprio la singolarità della vita insieme a qualunque livello, della vita fraterna nella tensione evangelica, nella imperfezione, ma mai seduta, e così si pone come parabola di Chiesa e per la Chiesa. Ed è la persona, la sua dignità, i suoi diritti e i suoi doveri, i suoi doni, il nostro insopprimibile desiderio di andare sempre oltre, che determina la fecondità dell’essere insieme. Lottare insieme per rendere le differenze una ricchezza è la sfida della vita fraterna, lottare per ridurre le disuguaglianze mettendole in dialogo significa lottare contro ogni forma di ideologia, che tenta la fraternità… la tentazione è sempre l’uniformità, il pensare che esista un modello prefissato o riuscito, in realtà l’unità può essere solo nel riferimento al Vangelo e non nell’identificarsi in un modello per quanto riuscito che rischia di diventare sempre ideologico.
In queste differenze che creano la vitalità di ogni comunità fraterna, ad esempio, per San Benedetto sono importanti i giovani che davanti ad adulti a volte un po’ smarriti ed assenti, oggi più che mai, (la mia generazione ha perso, per dirla con Gaber… genitori che scimmiottano i figli e giocano a fare gli adolescenti!), davanti ad un cambiamento epocale, decidono di costruire il futuro con le loro domande; i giovani hanno il dono della vivacità di questa convivialità delle differenze… non per nulla Benedetto ha due testi splendidi sulla funzione dei giovani (cap. 3 nel radunarsi dei fratelli al consiglio… perché ai più giovani, Dio spesso, rivela la soluzione migliore; e poi al cap. 63 dove si dice che l’autorità può decidere un ordine che è disordine mettendo il giovane al primo posto perché nella Scrittura il Signore spesso sceglie il più giovane per riaprire la storia ad un futuro ed evoca Daniele, Davide che aprono la storia ad un nuovo oggi, ad un nuovo domani che pareva non plausibile). I giovani, a volte, creano nella fraternità proprio quella continua capacità di ricominciare e trasformano la tentazione di diventare una sfera nella vivacità del poliedro.
Non per niente Benedetto caldeggia decisamente l’esperienza di fraternità, perché comprende ciò che abbiamo delineato finora, che è il Vangelo che dà il primato alla forma del vivere insieme.
Gesù nella kòinos bios ha trovato il grembo affidabile della sua donazione all’umano. Gesù non ha scritto niente, non ha lasciato nulla se non il germe del Suo Spirito che avrebbe dopo di Lui, una volta che si fosse totalmente donato alla morte, per amore, generato la comunità.
Questa è l’intuizione che ha soggiogato anche il patriarca del monachesimo d’Occidente: un modello di relazione non basato sulle affinità elettive, ma sul Vangelo che è una forma di vita, lotta aperta alla relazione e si è arricchiti proprio dalla diversità dell’altro, e proiettati ad una libertà nuova. Ricerca di Dio e paziente tessitura di relazioni fraterne questo il segreto (c’è una complessità nel vivere oggi questo binomio indissolubile… forse reso ancora più difficile nel contesto odierno dal fatto che tutti vogliono vivere senza l’intreccio di tutori, protettori, regole… e si vive la ricerca spasmodica di voler essere i protagonisti della storia, facitori di storia, se non nei casi più esasperati e a volte patologici, si entra addirittura in depressione semplicemente se gli altri non ci considerano, non ci guardano come vorremmo e non ci sentiamo sufficientemente l’ombelico del mondo!).
A questo proposito, Christian de Chergé (sgozzato dagli integralisti islamici a Tibhirine) scriveva: «Che cosa è la fraternità? È come il fondamento, la verifica, la manifestazione della nostra fede. La fraternità è scuola di comunità ma noi ci accorgiamo di saper solo balbettare, non sappiamo come metterci a questa scuola, è una scuola elementare o forse un asilo e noi ci riteniamo troppo grandi, superiori per andare a questa scuola, oppure è una scuola superiore, un’università e non ci riteniamo all’altezza»… – e continua – «e poi che cosa è la carità… e più facile dire ciò che non è… non è ciò che mi piace, che vorrei fare, non si identifica con nessuna legge e nessun comandamento anche se tutte queste cose le contiene ma le supera. Il modello originario della fraternità è l’ambiente trinitario che è scuola di contemplazione ma in pari tempo scuola di missione: il Padre ama il Figlio ma allo stesso tempo lo manda, lo butta fuori per il mondo, per il vuoto, per il niente, per l’annientamento nella forma di servo (kenosis)».
Per i Padri la scuola trinitaria è forma di obbedienza che il Figlio assume entrando nel mondo: questa carità che unisce il Padre e il Figlio non è dunque fusionale, come certi sognano, ma è una comunità in cui ciascuno resta se stesso lasciandosi mandare fuori dall’altro, di Persone dunque, liberamente e totalmente accordate. Questa è la meravigliosa ricchezza della fraternità. Il modello trinitario, in questa sua misteriosa relazione che fa uscire, manda altrove, in cui nessuno si specchia nell’altro alla Narciso e Boccadoro, ma si sente liberato dalla Presenza dell’altro, è per noi un modello fondante.
La fraternità allora – capiamo bene – che non è qualcosa di eccellente ma di stabile sì, è fedeltà. La vita fraterna questo è: rende disarmati nei confronti dell’altro, snida le nostre precomprensioni, manda in frantumi le sovrastrutture del voler capire tutto intellettualmente, incasellando l’altro dentro un sistema (così stiamo più tranquilli noi… è una forma di protezione…) e rende invece desiderosi dell’altro, una volta cadute alcune paure, perché ci rivela la nostra verità più profonda e non il personaggio che ci siamo costruiti o che altri hanno costruito.
La bellezza più vera non è una bellezza a pelle, di emozioni, è una bellezza di senso che riesce a guarire anche le ferite profonde… non avere paura delle nostre debolezze e fragilità, di ciò che gli altri spesso non immediatamente forse premiano di noi, questo non deve scoraggiarci… ed è questo che chi ci incontra riesce a fiutare… (il popolo santo di Dio non ci insegna solo la fede ma sa fiutare la verità di chi ha davanti e i recitanti…) del resto la profezia è dono… per me, la vedova di Sarepta è più profetica di un Elia prima depresso e poi arrabbiato dall’incalzare di Dio!
Il problema nostro è che non crediamo a sufficienza che il Vangelo sia la norma normans della nostra vita…per questo si hanno immagini “distorte” della fraternità… – semplifico – pensiamo che possiamo cavarcela con una “pizza insieme” e forse immediatamente dopo pensiamo di aver donato già tempo a sufficienza al nostro fratello ed è bene poi ritornare alle “cose importanti”, serie… senza considerare che spesso le nostre esperienze di pseudo-fraternità diventano anche occasioni di giudizio. Vivere la fraternità richiede invece un dispendio di tempo, di energie, una quotidianità… non è un “accontentarsi”, non si tratta di rapporti di conoscenza dove la vita dell’altro ci rimane sconosciuta, nascosta… o anche in ambito pastorale, quando facciamo vincere i capricci alle persone pensando di essere fraterni… questo non è educare e non è un segno dell’essere bravi pastoralmente perché questo sappiamo farlo tutti, ma non è educante perché non forma le persone e non le fa maturare… non è questo forse un fallimento della fraternità?

Lo sguardo di Francesco d’Assisi e i nostri giorni
Francesco d’Assisi vive la fraternità come costitutiva della gioia degli inizi: “Il Signore ha donato dei fratelli”: è il passaggio più forte del Testamento. Francesco non ha fatto niente per attrarre seguaci, anzi non li voleva proprio i fratelli, non solo non ha avuto ansie da prestazione, non ha fatto proselitismo e non ha cercato di fondare nulla; si è solo “rallegrato” che dei fratelli si fossero uniti a lui vedendo la propria esperienza personale evolvere verso la formazione di una piccola comunità, ma la sua, è soltanto una chiamata ad una vita secondo il Vangelo, non dimentichiamolo – “Nessuno mi mostrava cosa dovessi fare” che rivela la percezione che la strada che sta percorrendo è dono di Dio.
Il “vivere secondo la forma del santo vangelo” è una novità che va oltre anche l’ideale di vita apostolico perché è quello che Gesù ha detto e fatto; è seguire le sue orme con originalità …quelle orme che hanno inquietato lo stesso papa Innocenzo; Frate Francesco non usa il termine imitatio che di per sé è termine debole perché indica “mera ripetizione” e mina l’unicità. Allora forse alla base dell’idea di fraternitas sta il fare esperienza insieme di questa vita modellata sul Vangelo. Qui forse è il segreto: l’amore e la fede di Francesco diventano contagiosi, ma questo non dovrebbe essere anche il senso di ogni nostro annuncio, che non è fatto di tecniche: è contagio se siamo veri, sinceri, nel nostro seguire Gesù.
Potremmo fare dei parallelismi non banali al di là di quanto è stato scritto, ma ci sono somiglianze tra la diffusione di un virus come il Covid e la fede cristiana. Se il virus è comparso in una remota regione cinese e si è propagato rapidamente in modo inaspettato, anche la nostra fede si è sviluppata in un contesto sperduto di una periferia dell’impero romano e si è diffusa nel giro di poco tempo dalla morte e resurrezione di Gesù. Nel giro di pochi decenni ne è contagiata Roma, la Capitale, e l’intero Impero. Come il virus si diffonde per contagio, altrettanto avviene con la fede. Una domanda, allora, per noi si fa più sofferta: la fede in Gesù Risorto contagia ancora? Noi cristiani siamo contagiosi? Perché sembra essersi drasticamente ridotta la carica infettiva della nostra fede. Questa pandemia può essere metafora del modo di vivere da credenti. Pur continuando a compiere riti, liturgie, e il nostro ministero, la nostra carica infettiva sembra ormai bassa. Eppure quando appare un cristiano con alta positività virale, il contagio si diffonde rapidamente. Così accadde con Francesco d’Assisi, come con ogni storia di santità, fosse anche quella umile della porta accanto, capace ancora di contagiare… allora forse dobbiamo tornare a ripensare seriamente che la non radicalità è non testimonianza e non ci rende attrattivi.
Se non siamo “contagianti” vuol dire che forse c’è un problema di fede perché non si tratta di tecniche o strategie pastorali sbagliate. La fraternità non è una modalità, ma una necessità, perché la fede è di sua natura fraterna. La fede è condivisa, interrogata, si confronta e si interpreta all’interno di una comunità. L’Assisiate ha vissuto un affetto particolare per i suoi frati, li ha benedetti e amati: i biografi insistono sul tema della sua tenerezza (2Cel 172: FF 758) e su questo affetto e rispetto reciproci che non è comunanza di progetti, ma dono del Padre… sapete, che ha stabilito che ciascun fratello facesse a turno da madre agli altri.
Non esiste del resto nella storia una dolce fraternità disincarnata, ma lo scegliere di servire insieme il Vangelo in questo mondo accettando la sfida di superare la tentazione sottile di lasciare al loro destino gli uomini … la sfida della fede è invece imparare a vivere insieme agli uomini così come sono, deboli o forti, consapevoli che ciascuno è importante quanto l’altro.
Mi sono sempre posto una domanda: se il vivere insieme, nonostante le prove, le delusioni, i rifiuti e le gelosie, non fosse gioia, quale il suo senso? (e mi è venuta in mente nella controversia pelagiana la polemica dei monaci di Adrumeto e dei monasteri della Provenza con Agostino… traduco brutalmente – … gli dicono sì, ma se tutto è solo grazia e allora non serve l’ascesi, le penitenze, la correzione fraterna allora noi che stiamo a fare qua… è meglio andarsene a spasso!). Faccio un’analogia: se noi cristiani non esprimiamo un vivere fraterno che – mi sembra l’abbia detto un certo Gesù di Nazaret – da come vi amerete vi riconosceranno… se noi non esprimiamo anche visibilmente questa verità… allora è meglio far altro nella vita!!!
Francesco ha scoperto di essere frate-fratello di tutti, di piccoli e grandi, di quelli che sono fuori e di quanti stanno dentro, di lontani e vicini… ma solo se il dono della fraternità diventa centro del Vangelo allora può liberare potenzialità inaspettate, riaprire strade sbarrate e mostrare nuove vie verso la dignità perché capace di accogliere la ricchezza dell’altro al di là delle sue ferite, accettando se stessi: questo fa la qualità delle relazioni.
Per questa ragione, Francesco esprime bene le condizioni per entrare a far parte della fraternità: innanzitutto fare il proprio ingresso in una vita con la cessione dei propri beni ai poveri, postulato costitutivo per una vita di fraternità autentica. Ma qui c’è la rivoluzione: il segno di una piccola cellula in cui fosse visibile un’umanità riconciliata…e Francesco è conscio che questa riconciliazione è dono, lo sguardo misericordioso del Signore sull’uomo ma anche un’esigenza di riconciliazione degli uomini tra di loro, una chiamata a stabilire relazioni nuove tra gli uomini.
Questa missione di pace è stata possibile perché Francesco l’ha compiuta in primo luogo nella caverna del suo stesso cuore attraverso la pacificazione di ogni forma di violenza e aggressività. Per questo la Compilatio di Assisi ci ricorda che l’annuncio di questa pace non è stato sempre così evidente per i frati e che, davanti allo stupore della gente sul senso del saluto ad es., Francesco insistette perché il saluto doveva esprimere l’identità e la missione profonda di chi lo pronunciava (CAss 101: FF 1642). Per questo capace di suscitare speranza: il suo sguardo fraterno nasce da un’espropriazione totale, dal rifiuto del dominio sia nei confronti delle persone che delle creature. Il cammino della fraternità dunque è proprio questo uscire dalle tane e dai nidi (parafrasando Lc 9,57-62 … lasciare tutto il nostro mos ereditario) per metterci nel percorso dell’essere e non dell’apparire, e per arrivare fino in fondo nella corsa.
La fraternità solo in questa prospettiva può essere propedeutica all’amicizia, che secondo il pensiero giovanneo è la forma più alta dell’amore (Non c’è amore più grande che… non è l’amore di coppia! Altrimenti Gesù si sarebbe sposato!!!): è l’amicizia il vertice dell’amore possibile in questa storia.
Ma anche l’amicizia vive di un dinamismo che è trinitario perché come il Padre ha rivelato a Gesù tutti i suoi segreti, così Gesù rende partecipi noi dei suoi segreti, e noi, chi amiamo… non c’è possibilità di arrivare a vivere una vera esperienza di amicizia se non nella condivisione di ogni segreto nello Spirito: questo è il paradigma per arrivare all’amore oltre il quale non si va.
Agostino per questo nel Commento a Giovanni 85,3 dice che: «Solo il Signore può creare in noi le condizioni che ci consentono di partecipare alla sua amicizia. Come infatti vi sono due timori che creano due categorie di timorosi così vi sono due modi di servire che creano due categorie di servi [e che bisogna vincere altrimenti rimaniamo servi]. C’è il timore che viene eliminato dalla carità perfetta e ce n’è un altro, quello casto d’amicizia che permane in eterno [e che dà stabilità ai nostri rapporti che altrimenti sono sempre a rischio fallimento]». Continua il dottore di Ippona: «Non dobbiamo essere servi ma figli perché solo così potremo in modo mirabile e ineffabile, e tuttavia vero, servirlo da amici senza essere servi. E per essere servi amici, non servi, dobbiamo sapere che questo è grazia del Signore. Ecco ciò che ignora il servo… che quando compie qualcosa di buono se ne vanta come l’avesse compiuto lui e non il suo Signore e se ne gloria, come non l’avesse ricevuto da Lui. Noi invece se vogliamo essere amici dobbiamo sapere ciò che il Signore nostro fa… per questo ci ha chiamati amici perché tutto ciò che il Padre gli ha rivelato ce l’ha fatto conoscere» (cf. Opere di Sant’Agostino. Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di San Giovanni, XXIV/2, NBA, Città Nuova, 1266-1269).

Sguardo sinodale
Mi sono accorto che la chiusa del Vangelo di Matteo descrive in qualche modo l’inizio del percorso sinodale della Chiesa, con tutti gli elementi per viverlo. «Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea… Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: ‘… Andate … Io sono con voi …’.» (cf. Mt 28,16-20).
Gesù manda i suoi discepoli verso tutti i popoli e fino alla consumazione del tempo col compito di diffondere nell’umanità la comunione trinitaria e li assicura che Lui resterà con loro, cioè in comunione con loro, tutti i giorni e per sempre. Questo crea subito una caratteristica inderogabile della vita cristiana: che essa potrà svolgersi solo nella comunione dei discepoli fra loro. Gesù infatti dice «Andate»: è una missione declinata al plurale, che dobbiamo sempre vivere come un “noi” ecclesiale che trasmette il grande “Noi” delle tre Persone Trinitarie.
Anche durante la sua vita terrena, Gesù non ha mai mandato un discepolo in missione da solo, ma sempre almeno in due. Mi sembra che l’unica volta che abbia lasciato partire un discepolo da solo sia stato quando ha detto a Giuda: «Quello che vuoi fare, fallo presto» (Gv 13,27). Gli altri pensarono che Giuda avesse ricevuto da Gesù una missione da compiere, invece era Satana, appena entrato in lui, a spingerlo, a muovere i suoi passi da solo, ma da soli si esce dal calore e dall’intimità del cenacolo per entrare nella notte dominata dal male.
E non è solo per una questione pratica, di sostegno reciproco, che Gesù invia i suoi discepoli a due a due. Infatti, dando loro il potere di guarire i malati, di scacciare i demoni, di risuscitare i morti, di sopravvivere agli avvelenamenti, ecc. … se uno ha tutti questi poteri, anche se è solo, dovrebbe essere invincibile! Che bisogno avrebbe di sostegno fraterno? In realtà, Gesù vuole che la missione dei discepoli testimoni di una forza nella debolezza, nella fragilità: «Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi» (Lc 10,3)… Ma invece che munirli di difese, di una armatura, di far di loro un piccolo esercito per difendere la loro incolumità, li manda inermi, disarmati, senza protezioni, senza mezzi, esponendoli al martirio.
Tutto questo mette in evidenza l’importanza dell’unica cosa che Gesù permette di portare con sé nell’andare: l’amore fraterno, l’amicizia, la cura reciproca, cioè la comunione. E i discepoli, non ne hanno bisogno, per essere forti, o per risolvere problemi o costruire cattedrali, ma proprio per evangelizzare e non solo parlando dell’avvenimento Cristo, bensì trasmettendolo, trasmettendone l’esperienza, e un’esperienza in atto, non un’esperienza solo del passato, o magari che si promette per il futuro. La comunione fraterna è dunque la sostanza di tutta la missione della Chiesa.
Papa Francesco ribadisce che «solo chi respira nell’orizzonte della fraternità esce dalla contraffazione di una coscienza che si pretende epicentro di tutto, unica misura del proprio sentire e delle proprie azioni» (Lettera ai partecipanti all’Assemblea Generale Straordinaria, 8 novembre 2014). In tal senso è il risultato della carità di tutti, ma anche dell’umiltà e del sacrificio di ciascuno e in quanto tale richiede che si sappia viverlo anche con sano distacco e vigilanza rispetto ad alcuni pericoli quali atteggiamenti di pretesa e di carrierismo che non sono un vezzo, ma atteggiamenti che distruggono i rapporti, calpestano la fraternità perché i rapporti vengono vissuti in maniera strumentale all’insegna di una captatio benevolentiae, che è doppiezza e ricerca di secondi fini, nella speranza più o meno segreta di essere notati, apprezzati e “promossi”; ma questo non permette la maturazione di un clima evangelico invece determinante per la qualità di una relazione fraterna (Lievito di fraternità, 24-25). La comunione è insieme il movente, il metodo e il fine; l’origine, il senso e lo scopo della sinodalità ecclesiale. Infatti, subito dopo l’uscita di Giuda dal Cenacolo, Gesù parla solo di questo agli apostoli rimasti: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». (Gv 13,34-35).
La comunione è amore reciproco, amarsi gli uni gli altri. È l’amore che Gesù ha acceso fra i suoi discepoli, che ha acceso nella Chiesa amandoci fino alla fine, lavandoci i piedi, parlandoci del Padre, e rimanendo realmente presente in mezzo a noi. L’indissolubilità fra comunione e missione è espressa da due parole simili di Gesù, che si rispecchiano come i due versanti in mezzo ai quali avviene tutto il mistero pasquale della morte e risurrezione del Signore: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9) … «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,21-22).
La comunione è questo amore trinitario fra il Padre e il Figlio nel dono dello Spirito che è irradiante per natura. La comunione si comunica da sé quando è vissuta davvero, non richiede studi o stratagemmi. La comunione è per sua natura comunicazione. E la missione è la comunicazione della comunione. Senza comunione non c’è missione. La comunione è la sostanza della missione. Solo la comunione è allora il soggetto della missione. Ma questo cambia radicalmente ogni prospettiva, nel senso che se non c’è un’esperienza di comunione, una realtà di comunione, cioè una comunità fraterna, fosse pure fra due sole persone, un essere insieme, un “noi”, se non c’è questo, noi non portiamo Cristo, e il nostro andare diventa un po’ come la luce di quelle stelle spente da milioni di anni che ci arriva ora, e noi ci illudiamo che esistano. Invece quella luce non ha più sorgente, non ha più sostanza, non c’è più un soggetto che la irradia.
Ho maturato l’idea che ogni grande crisi nella Chiesa, a tutti i livelli, non è tanto una crisi nel nostro impegno di evangelizzazione, spesso anche lodevole, ma sempre una crisi della comunione, nel vivere la comunione.
E rischiamo di sprecare energie e soprattutto la grazia di questo tempo se non capiamo quale conversione alla comunione la sinodalità ci chiede per essere feconda come missione. In altre parole, ho l’impressione che nel vivere l’andare della Chiesa, a tutti i livelli, non è tanto la missione stessa che fa paura, ma è la comunione che fa paura. Perché? Perché per vivere la comunione, più che una decisione esteriore, più che un impegno esteriore, ci è chiesta una conversione interiore, ci è chiesto di vivere un processo dove intelligenza e cuore insieme devono cambiare in profondità.
Anche l’annuncio chiede certamente una decisone interiore, chiede carità, sacrificio, capacità di testimonianza. Ma è soprattutto la comunione che chiede una profonda conversione dell’io, un passaggio di natura pasquale, un entrare nella vita che passa per una morte. Perché la comunione chiede il passaggio dall’io al noi, un passaggio in cui l’io deve morire per risorgere. Non si diventa “noi” solo per addizione, ma attraverso una trasformazione pasquale. L’io non diventa un “noi” semplicemente addizionando altri io al mio io. Infatti, Gesù ha scelto la parabola del chicco di grano per spiegare come si passa dall’io al noi: il chicco di grano marcisce veramente nella terra, muore non in apparenza… «…se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,24-25). Gesù ricorda che la fecondità consiste nel “non rimanere soli”, ma nel diventare un “noi”. Non si è fecondi se si è forti, belli, intelligenti, numerosi. Si è fecondi se si vive la comunione dove l’altro espropria il mio io. Chi pensa di amare la sua vita amando il proprio individualismo, il proprio comodo, il proprio interesse, la propria gloria, la perde. Per questo Gesù ci chiama letteralmente ad “odiare”, non la vita, ma l’immagine falsa, egocentrica e autonoma della vita che ci portiamo dentro a causa del peccato, l’immagine autoreferenziale (quello che ho fatto io, ho pensato io, ho realizzato io…). La comunione fa paura perché implica la morte a se stessi. Quando Giovanni scrive nella sua prima lettera: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14), in realtà ci fa capire che, perché l’amore fraterno ci possa far passare dalla morte alla vita, è necessario morire alla falsa vita di amare solo noi stessi.

Confucio diceva ai suoi amici: «Vi auguro una grossa maledizione: vivere in tempi di grandi cambiamenti» (allora se noi viviamo non un’epoca di grandi cambiamenti, ma addirittura un “cambiamento d’epoca” vuol dire che abbiamo superato anche la grossa maledizione perché vuol dire che noi allora siamo dei grandi maledetti in quanto grandi benedetti!) e questo perché nascere e crescere è sempre “drammatico” in senso etimologico, è cioè l’affanno di un moto, e il discernimento è quest’arte finissima, ossia la continua attenzione che ci porta a riflettere su ciò che è essenziale per evitare di buttare a mare insieme all’acqua sporca anche il bambino, e questa sarebbe la grande tragedia: il non capire che tutto e tutti siano relativi all’Unico Signore e che ognuno di noi solo da Lui riceve la verità e la libertà di conoscere e di diventare se stesso.
Grazie!