Relazione di don Gianni Carozza al ritiro del clero del 9 dicembre 2020

La visione di trono, rotolo e Agnello (Ap 4-5)

Vivere un “ritiro” significa prima di tutto sperimentare il “rientro in se stessi”, in quell’uomo interiore nel quale – secondo Sant’Agostino – “abita la verità” (cf. De vera religione XXXIX, 72). Non una verità qualsiasi, ma la Verità con la maiuscola, Cristo, il Maestro interiore. Scriveva infatti lo stesso Agostino in una lettera ad una giovane che gli chiedeva consigli per i suoi studi: “anche se potrai imparare da me qualcosa di utile alla salvezza, ti sarà Maestro solo Colui che è il Maestro interiore dell’uomo interiore” (Lettera 266). Ma questo Maestro potrà parlarci solo se faremo tacere i rumori che agitano la nostra mente. Non per estraniarci dal mondo, ma per recuperare i motivi del nostro impegno nel mondo. Ringrazio l’Arcivescovo per questo invito (parlare al clero non è mai semplice, poi al clero della propria diocesi credo ancor di più) e voi per la bontà di ascoltarmi (fate già troppe penitenze in questo periodo). Viviamo insieme questo momento di rientro in noi stessi, dove a fare da maestro non sarò certo io, ma il Maestro interiore, l’unico che sa raggiungere la profondità del nostro spirito e restituirci le energie. Un motivo supplementare di ringraziamento, per la vostra presenza, è dovuto al fatto che questo periodo per molti è un periodo intenso dell’anno per la preparazione del Natale.

Premessa

Una cosa importante da tenere presente è che l’Apocalisse è fatta soprattutto di immagini; contiene una teologia “robusta”, una riflessione straordinaria sul mistero di Gesù Cristo, ma questa riflessione è basata su delle immagini più che sui ragionamenti. Se vogliamo “gustare” l’Apocalisse dobbiamo leggere e prendere dentro al cuore le immagini, dobbiamo imparare a ricordarle e a gustarle.
L’Apocalisse dovrebbe darci una specie di patrimonio di fantasia, di immaginazione che ci permetta di ritrovare la presenza del Signore e il suo mistero in persone, avvenimenti, cose, immagini, ovvero una trasfigurazione della realtà. Questo è un cammino prezioso anche perché dovrebbe aiutarci a purificare l’immaginazione.
Questa purificazione è uno dei grandi campi del cammino dell’ascetica. L’unico modo per purificare tutte quelle immagini che ci portiamo dentro al cuore e che sono fondamentalmente egoistiche è quello di sostituirle con altre che vengono dal Signore e che ci riconducono istintivamente a Lui.

Noi meditiamo una “rivelazione”. “Rivelazione” è la traduzione in italiano della parola “apocalisse”, che vuol dire “tirare via il velo che nasconde qualche cosa”. Qual è la rivelazione che dobbiamo meditare?
“Rivelazione di Gesù Cristo, di Gesù di Nazareth”. È Gesù che toglie il velo, ma è Lui che sta dietro al velo: non abbiamo da imparare nient’altro che Lui. L’Apocalisse parla del futuro, ma non pensiamo che parli del futuro come una cronaca anticipata degli avvenimenti, come tentano di fare in qualche modo gli astrologui a capodanno quando danno le previsioni per l’anno che viene; il discorso dell’Apocalisse è molto più profondo e prezioso. Quello che l’Apocalisse vuole rivelare è il significato della storia umana, il dove la storia va a parare, qual è dunque il traguardo della nostra vita.
Nella concezione greca, la storia procede fondamentalmente attraverso un processo circolare, come le stagioni: c’è la primavera, l’estate, l’autunno, poi l’inverno e si ricomincia il ciclo con la primavera. Anno dopo anno si ripetono fondamentalmente le stesse cose, per cui, nella concezione greca, la storia è un processo che ritorna su se stesso.
Nella concezione della Bibbia, invece, la storia ha uno scopo, è un processo che va verso una fine e un compimento. Sapere qual è questo compimento vuol dire imparare qual è la strada e dove stiamo andando, vuol dire dare senso alle cose che facciamo, dare senso alla realtà che noi stiamo sopportando, vivendo, costruendo. Ed è questo che l’Apocalisse vuole indicare: vuole darci una speranza, vuole insegnarci che cosa possiamo sperare.
«Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia». Notiamo questo strano modo di esprimersi: fa dire ai commentatori che siamo nella liturgia. C’è uno che legge e c’è l’assemblea che ascolta. Quando avviene questo? Nella liturgia.
Quindi dovremmo leggere l’Apocalisse come una liturgia, nel contesto di una proclamazione liturgica, perché il senso della storia è lì. Se vogliamo sapere che cosa succede veramente nel mondo, naturalmente dobbiamo leggere i giornali o accendere la televisione, ma si capisce poco da queste fonti. Se vogliamo capire davvero cosa succede nel mondo dobbiamo partecipare a una liturgia, perché il senso della storia è quello: lì dove la Parola di Dio viene annunciata e dove l’amore di Dio viene proclamato. Questo è il contenuto della storia: la liturgia.
Tutta l’Apocalisse è una grande liturgia che viene messa davanti ai nostri occhi, nella quale ci dobbiamo lasciare come immergere, trascinare.

Dopo la visione preparatoria del capitolo primo e dopo le sette lettere che occupano i capitoli 2 e 3, con il capitolo 4, l’Apocalisse incomincia ad introdurci dentro al mistero della storia ed al mistero del futuro. Leggiamo i capitoli 4 e 5 cercando di seguire con il cuore.

Salire in alto: il punto di vista di Dio

Questo brano è una meraviglia e dovrebbe anche essere pieno di consolazione. Si apre per noi una porta nel cielo: Dio non tiene nascosto il suo segreto e il suo mistero, c’è la possibilità di salirgli accanto, e di vedere le cose dal Suo punto di vista. Questo, naturalmente, è pura grazia, perché noi non possiamo salire accanto a Dio. Solo il Signore, pura grazia, può aprire il segreto del suo cuore, della sua mente, dei suoi progetti. È proprio quello che avviene:

«Una porta era aperta nel cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito» (Ap 4,1).

Ci si domanda: “A cosa serve sapere le cose che devono accadere in seguito? Perché è così importante? È una curiosità da soddisfare?”. No. Il discorso è che Giovanni, la comunità cristiana di Giovanni e la Chiesa devono annunciare il Vangelo.
Il Vangelo eterno è la notizia di un’opera di salvezza, è la speranza di un mondo nuovo, di quel mondo che Dio si impegna a creare. Noi annunciamo questo. Se dobbiamo annunciare il Vangelo dobbiamo sapere quello che accadrà, quello che Dio farà della storia, della nostra vita, delle sofferenze e delle gioie che segnano il cammino dell’uomo nel mondo. Sapere il futuro, in questo caso, non è questione dei maghi che vogliono anticipare la conoscenza; è il problema di sapere qual è la nostra speranza e che cosa possiamo davvero annunciare alla gente come una sicurezza che non viene dai nostri sogni, ma dal progetto di Dio.
Quel “sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito”, manifesta la volontà di Dio di svelare il suo progetto di salvezza, perché Giovanni lo possa conoscere e lo possa annunciare. Si tratta di sapere il contenuto del Vangelo.
È significativo che san Giovanni, per conoscere il senso della storia, debba uscire dal mondo. Per sapere il senso della storia non basta leggere i giornali, o studiare i libri di storia, o cercare le riflessioni dei filosofi sull’uomo e sul significato dell’evoluzione umana. Se uno vuol sapere il senso della storia deve salire presso Dio. Stando dentro la storia non capisce, non vede o vede solo dei piccoli frammenti. Se vuole capire davvero il disegno, deve salire verso Dio e vedere le cose dal punto di vista di Dio e del suo progetto. E Giovanni riceve, come un dono, questo modo di vedere le cose.

Una porta aperta nel cielo: capire la storia

Giovanni viene innalzato in cielo: «fui in spirito» (Ap 4,2). L’autore vuole qui indicare l’ingresso dentro una realtà che è lo Spirito. Vede un trono circondato da un arcobaleno simile a smeraldo e, attorno al trono, ci sono ventiquattro vegliardi e quattro viventi.
I ventiquattro vegliardi sono una specie di simbolo della storia della salvezza: dovrebbero significare insieme le tribù di Israele e gli apostoli; raccolgono, insomma, l’esperienza del popolo di Dio nella storia della salvezza. Possiamo rintracciare in essi anche tutti quei grandi personaggi che abbiamo conosciuto attraverso la scrittura da Abramo in poi, che hanno camminato secondo la volontà di Dio e che sono stati guidati dal suo progetto. Dio sta in mezzo come dominatore di questa storia di salvezza.
Poi ci sono i quattro viventi. Gli esperti dicono che il quattro è il simbolo della totalità dello spazio. Siccome lo spazio noi lo percepiamo a partire dal nostro corpo, lo dividiamo in quattro parti: davanti, dietro, destra e sinistra. I quattro viventi sono il simbolo del cosmo, dell’universo, della creazione.
Ventiquattro vegliardi e quattro viventi: la storia della salvezza, il cosmo, la creazione, tutto è attorno al trono di Dio. Dio è il Signore del mondo, Dio è il Signore della storia. Dio ha creato l’universo e Dio domina il cammino della vita dell’uomo nel mondo. Per cui proclamano davanti al Signore:

«Santo, santo, santo, il Signore Dio, l’Onnipotente, Colui che era, che è e che viene!» e «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono» (Ap 4,8.11).

Di conseguenza, se uno vuole capire la storia, deve partire da Dio, dal riconoscimento che c’è un Dio Signore del mondo; non si può capire la storia solo “dai tetti in giù”. Dai tetti in giù si possono vedere gli avvenimenti ma non si può capire quello che succede veramente. Per farlo bisogna partire da Dio: al centro del mondo c’è Lui come sovrano. Il trono rappresenta questa regalità, questa sovranità di Dio.
A questo punto veniamo all’aspetto più significativo:

«[…] vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli» (Ap 5,1).

Sembra proprio una specie di testamento. Questo Signore che siede sul trono ha, nella mano destra, il rotolo che contiene la sua volontà, che contiene quindi il senso della storia.
Il senso della storia significa questo: io mi trovo nella storia a confrontarmi con avvenimenti che non riesco a controllare del tutto, perché non sono signore delle cose e mi condizionano; mi trovo a dovere fare i conti con distacchi e con destini misteriosi che fanno soffrire, con malvagità e cattiverie insopportabili, con oppressioni e pianti di innocenti che stento a spiegare, a dare loro un significato.
Mi chiedo se questo materiale complesso di cui è fatta la mia vita abbia poi uno scopo, perché, se c’è da piangere, e questo serve a qualcosa, ci sto; se c’è da provare angoscia, e questa costruisce qualcosa di positivo, ci sto, la sopporto. Ma quello che non riesco a sopportare è il peso della sofferenza che non porta da nessuna parte, che sembra inutile come la fatica di Sisifo. È questo il dramma dell’assurdo che facciamo fatica a sopportare.
La risposta sta in quel rotolo, perché lì è scritto il testamento di Dio, il suo disegno, la sua volontà, il suo progetto. L’ideale sarebbe potere leggere, potere sciogliere quei sigilli e leggere il rotolo.

«Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?». Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo. Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo» (Ap 5,2-3).

Non c’è nessuna forza umana o sovrumana che sia in grado di sciogliere il mistero della storia, il mistero della vita; non bastano i filosofi che hanno una testa sopraffina, non bastano i re che mettono insieme delle potenze sterminate, nemmeno gli angeli e i demoni sono in grado di rivelare il significato di queste cose. Non bastano queste realtà per entrare nel mistero della storia: l’uomo rimane radicalmente impotente.
Il pianto di Giovanni è il pianto di tutti gli uomini che non sono stati in grado di capire il senso delle loro sofferenze, delle loro angosce, e si sono trovati radicalmente deboli di fronte agli avvenimenti, che hanno sopportato. Non hanno potuto fare altro che subirli senza riuscire a comprenderli. Il pianto dell’uomo, è quel pianto che attraversa e accompagna le sofferenze immense dell’umanità.

Nella prospettiva dell’Agnello immolato

«Uno dei vegliardi mi disse: “Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”» (Ap 5,5).

“Non piangere più”, esprime la proclamazione di un avvenimento nuovo nella storia che procede da Adamo in poi. Adesso c’è qualcosa di nuovo, qualcosa di radicalmente inatteso, inedito e che finalmente può dare il senso alle cose, può svelare il mistero degli avvenimenti. Non piangere più. Ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide.
Questi sono due attributi messianici.
Il primo viene dalla Genesi al capitolo 49, quando Giacobbe benedice Giuda e lo proclama come un leone – il leone di Giuda – che poi è diventato un simbolo messianico:

«Un giovane leone è Giuda: dalla preda, figlio mio, sei tornato; si è sdraiato, si è accovacciato come un leone e come una leonessa; chi oserà farlo alzare? Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli» (Gen 49,9-10).

Dunque è una figura messianica: il Messia è come il leone di Giuda; leone indica naturalmente nobiltà, forza irresistibile. Accanto al leone è citato il germoglio di Davide; questo titolo viene da Isaia, quando annuncia che dal ceppo di Iesse, dalla famiglia di Davide, scaturirà un nuovo germoglio che sarà il Messia.
Il Messia, forte e vincitore, aprirà il libro e i suoi sette sigilli. Dunque bisogna aspettarsi la venuta di qualcuno forte e vincitore: la venuta di un leone forte e nobile.

«Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6).

Qui ci dobbiamo stupire: ci aspettavamo un leone e abbiamo un agnello, ci aspettavamo un vincitore e abbiamo uno sgozzato. Ma è proprio questo il mistero della storia.
“Vidi ritto in mezzo al trono” indica che è in piedi, e quindi è vivente. Se è sul trono esercita la sovranità, è un vincitore. Circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi: i quattro esseri rappresentano il cosmo, il mondo; i vegliardi rappresentano la storia. La storia è per Lui, dipende da Lui; quell’agnello è il Signore del mondo, è il Signore della storia.
Un Agnello che è stato sgozzato, che porta ancora i segni del suo sacrificio, dello sgozzamento. Questo fa parte della teologia tipicamente giovannea. Anche nel suo Vangelo si dice che il Signore risorto porta i segni della passione e li mostra ai suoi discepoli quando appare loro il giorno di Pasqua:

«Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,19-20).

La stessa cosa accade otto giorno dopo con Tommaso: ancora i segni della passione che, per san Giovanni, servono a ricordarci che il risorto e il crocifisso sono la stessa persona.
È vero che è risorto ed è glorioso, ma porta i segni del sacrificio. Di fatto, se è risorto e glorioso, è solo perché si è sacrificato; la risurrezione non è solo un dopo la morte, ma è un dentro alla morte, è quella morte che viene trasfigurata, ma è morte: senza sacrificio non c’è risurrezione. Se non è sgozzato, non è nemmeno vittorioso; se non ha sacrificato se stesso, non è nemmeno in grado di vincere, di vivere come un risorto.
Dunque l’agnello immolato ha sette corna e sette occhi simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra: le sette corna indicano la potenza irresistibile: è un agnello, ma potente. Vale per lui quello che dice Gesù: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18).
Varrebbe la pena che ricordassimo che cosa è questo potere, perché il potere che ha il Cristo risorto non è arbitrario. Gesù ha rinunciato al “faccio quello che mi pare”; il potere che ha conquistato è il potere di dare la vita.

«Tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato» (Gv 17,2).

Questo è il potere: dare la vita di Dio. Proprio perché l’ha donata, la comunica; ha un potere irresistibile, ma è un potere salvifico, un potere di vivificazione, di rinnovamento del mondo. Queste dunque significano le sette corna: potere senza limiti. Sette occhi simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra. È l’immagine – ancora giovannea – del Cristo risorto come sorgente dello Spirito: la sorgente in realtà è il Padre, ma il Cristo risorto comunica lo Spirito ai suoi e con abbondanza.
Il giorno di Pasqua ancora Gesù appare ai suoi discepoli, soffia su di loro lo Spirito e dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Addirittura nella prospettiva di san Giovanni, quando Gesù è sulla croce: «[…] Ricevuto l’aceto, disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,29-30), ha comunicato lo Spirito di Dio che era in Lui agli uomini, per vivificarli.
«[…] Uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34); questa è una morte feconda, è una morte che produce vita, e la vita è esattamente lo Spirito: Gesù comunica lo Spirito di Dio agli uomini. Ha la pienezza dello Spirito, perché lo Spirito è sceso su di Lui – ma non solo, si è fermato sopra di Lui, e – secondo san Giovanni – quello Spirito che Gesù ha posseduto, lo trasmette e lo comunica.

Il traguardo della storia e dell’umanità

Così è dunque l’agnello che viene presentato nell’Apocalisse:
regale, perché è sul trono;
vittorioso sulla morte, perché porta i segni dello sgozzamento, ma è ritto in piedi sul trono;
al centro del mondo e della storia, perché attorno a Lui ci sono i quattro viventi e i ventiquattro vegliardi;
con l’onnipotenza di Dio per dare la vita simboleggiata dalle sette corna;
con la pienezza dello Spirito da comunicare, cioè con i sette occhi simbolo dei sette spiriti di Dio.

Esso sta al centro del mistero della storia. La storia ha raggiunto il suo traguardo, non c’è da aggiungere nient’altro. Che cosa è successo nella Pasqua di Cristo?
L’umanità, un pezzo di mondo, è diventata divina. Gesù Cristo è fatto del materiale di cui siamo fatti noi; ha preso un’umanità che è fatta di carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto… ha preso un’umanità che è fatta di carne, di terra, della nostra terra. Ma Gesù Cristo ha portato quella terra alla perfezione dell’obbedienza a Dio, l’ha resa fedele, pulita, giusta, perfettamente obbediente a Dio, tanto da arrivare fino alla morte. Quando questa umanità arriva all’obbedienza a Dio fino alla morte, è diventata perfetta, entra nella gloria. La risurrezione, l’ascensione vogliono dire questo: un pezzo di mondo è davanti a Dio, è diventato divino, è stato trasfigurato, trasformato.
Come? Non lo so! Quale cambiamento sia avvenuto nell’umanità di Gesù, attraverso la sua risurrezione, è cosa che non riesco a decifrare – se non per alcune immagini che usa san Paolo – ma il fatto è quello lì: la nostra umanità sta accanto a Dio nella gloria.
La storia non ha altro senso che questo: assolvere la funzione che questo mondo venga condotto fino a Dio, faccia il cammino che ha fatto Gesù Cristo, viva la Pasqua che è il compimento della storia, perché un pezzo di umanità diventa glorioso. La Pasqua è davvero il compimento della storia del mondo, e per questo l’agnello pasquale sta sul trono ed è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli.

«L’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono. E quando l’ebbe preso, i quattro esseri viventi [il cosmo] e i ventiquattro vegliardi [la storia] si prostrarono davanti all’Agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi. Cantavano un canto nuovo: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra» (Ap 5,8-10).

Il senso della storia è che l’uomo venga riscattato per Dio e diventi un regno sacerdotale; l’umanità venga liberata da quelle catene di egoismo, egocentrismo, peccato e diventi veramente un’umanità per Dio.
Questo ha fatto Gesù Cristo: è stato immolato, ma non solo, ha trasportato la sua umanità dal nostro mondo al mondo di Dio – perché ne ha fatto un’umanità obbediente, un’umanità ricca di amore; facendo questo, ha riscattato anche gli uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione. Il riscatto è la redenzione, è la liberazione dal peccato, dal male, perché questo mondo, questa umanità, tutta l’umanità di ogni lingua, popolo e nazione, appartenga a Dio, e diventi un regno di sacerdoti.
Divenga cioè un’umanità di persone in grado di convertire la propria vita in sacrificio gradito a Dio, di fare quello che ha fatto Gesù Cristo, che ha trasformato la sua vita in sacrificio gradito al Padre, perché l’ha trasformata in obbedienza ed amore. Gesù Cristo rende possibile questo agli uomini. Non c’è altro che questo da realizzare nella storia: diventare un regno di sacerdoti offrendo a Dio non qualcosa, ma la propria vita.
Il sacrificio gradito a Dio è il sacrificio della vita, quello solo. Tutti gli altri sacrifici sono dei simboli che hanno il loro valore, perché l’uomo vive di queste cose, ma hanno la loro verità nell’offerta della vita, nella sua consacrazione. Quando la vita non appartiene più a noi, ma a Dio, Dio può sentire il profumo della vita dell’uomo come qualcosa di gradito a Lui.

La presidenza eucaristica è il momento supremo del ministero e la realizzazione più profonda dell’unità tra ministero e vita. È centrale perché – come afferma PO n. 5, citando san Tommaso – nel ministero eucaristico è “racchiuso tutto il bene spirituale della chiesa”. È dunque un motivo ecclesiale a far sì che il sacerdote viva il suo momento di sintesi più alto nell’eucarestia.
La presidenza in persona Christi rende manifesto come il prete non presieda a nome proprio, ma nel nome di Cristo-pastore che offre la vita per il gregge. “Questo è il mio corpo spezzato per voi”; “questo è il mio sangue versato per voi”: è Cristo che lo ripete ad ogni eucarestia per la sua Chiesa; ma, in Cristo, anche chi lo rappresenta ripete la sua offerta totale alla Chiesa. Credo così che la presidenza eucaristica plasmi la vita spirituale del prete: lo richiama a rinnovare l’offerta e del suo corpo e del suo sangue, cioè di tutta la sua vita, alle persone alle quali è inviato. Non “alle persone che ho davanti”; sarebbe facile e tutto sommato comodo, donare il corpo e il sangue a quelli più fedeli, più assidui, più docili. Nel cuore della consacrazione è piantata dunque la spina della missione.

La liturgia celeste e la nostra liturgia

«Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: “L’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”. E i quattro esseri viventi dicevano: “Amen”. E i vegliardi si prostrarono in adorazione» (Ap 5,11-14).

La liturgia celeste è quella nella quale si svela il senso del mondo. Quando la storia, il cosmo, gli angeli e tutte le creature riconoscono la sovranità dell’Agnello e attribuiscono a Lui il potere, la ricchezza, la sapienza, la forza…, la storia è rivelata nel suo senso. Quando celebriamo la liturgia e facciamo queste cose, noi glorifichiamo l’Agnello, riconosciamo che a Lui spettano potenza, ricchezza, sapienza e forza. Quando facciamo la liturgia, la storia, il senso della vita umana, viene portata alla sua rivelazione, e tutto il materiale di cui è fatta l’esistenza degli uomini viene trasformato in lode a Dio.

Credo che questa pagina interroghi anche noi preti e ci esorta a tenere conto di alcune cose. Spesso assistiamo a due estremi nelle nostre liturgie: quello della teatralità e del formalismo. Se il sacerdote celebra in persona Christi, non è però Cristo stesso, ma a Lui deve rimandare, Lui deve rendere presente, Lui deve far incontrare. La sua è una presidenza iconica: è ad immagine del Crocifisso risorto, il quale è tutt’altro che un leader di successo o un telepredicatore.
È vero che ci sono oggi alcune ragioni culturali della crisi del rito. Riprendo alcuni interrogativi del card. Martini: “Quali sono le forme autentiche del rito? Quali difficoltà e quali ambiguità erano presenti nella diffusa ritualità dei tempi passati? Perché l’uomo contemporaneo, almeno in occidente, sembra che vada perdendo la ritualità della vita? Quali surrogati di essa ha trovato nelle mode e nelle esaltazioni di massa? (Attirerò tutti a me, 1982-1983)”.
Sappiamo bene che ormai da tempo si sono affacciati i riti di massa che hanno trasferito la gestualità comune dei luoghi che erano quelli dell’identità (la piazza e la chiesa) a quelli dell’omologazione (gli spazi del divertimento e i centri commerciali). Ormai il rito degli acquisti domenicali al centro commerciale è inesorabilmente lo stesso da Bolzano a Catania: si arriva in auto con la famiglia, si prende il carrello, ci si ferma al bar, si sistemano i figli nella sala giochi, si esce pagando e spingendo il carrello stipato almeno il doppio di ciò che era previsto per la spesa.
C’è poi la svolta rituale dei nuovi mezzi di comunicazione: basterebbe scorrazzare tra i profili di Facebook e Instagram per accorgersi che si obbedisce tutti a una sorta di liturgia dell’apparire, che fa mettere in mostra se stessi e che obbedisce a un nuovo comandamento: “Appaio, dunque esisto”, con il rito della citazione memorabile, della fotografia indimenticabile… il tutto alla ricerca spasmodica di un like. Pensando di essere stati originali. Certamente questa ritualità non è subito da demonizzare: può essere un’espansione della nostra interiorità o un surrogato del vuoto.
Tra febbraio e maggio 2020 c’è stata poi una divisione molto forte anche nella Chiesa, svelata ancora più chiaramente: sulla messa-sì o messa-no, sulla trasmissione delle celebrazioni eucaristiche in fase uno e sulle aperture della liturgia al popolo in fase due e tre. Con accuse reciproche: di deriva tridentina da una parte e di deriva protestante dall’altra. Sembra che ci sia una frattura tra due schieramenti valoriali nella chiesa, che sbrigativamente vengono definiti di “destra e sinistra”.
Questa situazione, a un vescovo in Italia ha fatto venire in mente una canzone scritta tanti anni fa da Giorgio Gaber, che diceva più o meno: “la vasca è di destra, la doccia è di sinistra, la giacca di destra e i jeans di sinistra…”. Con la sua genialità, se Gaber fosse stato ancora vivo durante la pandemia, avrebbe potuto aggiungere qualche strofa: “la messa in tv è di destra, la preghiera in famiglia di sinistra; la liturgia della parola è di sinistra, la liturgia eucaristica di destra; la comunione sulla lingua è di destra, la comunione sulla mano è di sinistra; il guanto del ministro è di sinistra, la pinza per porgere l’ostia è di destra”.
Le differenti sensibilità evidentemente sono una ricchezza; ma quello che colpisce è piuttosto come la differenza diventi divisione, come l’osservazione critica scivoli nell’illazione e nell’insulto.

Forse la situazione attuale non è poi molto lontana da quella che viveva la comunità a cui si rivolge Giovanni nell’Apocalisse: lì era minacciosa l’ombra del tiranno romano che pretendeva di essere adorato come una divinità, il fascino della cultura pagana che conquistava molti fedeli, mentre Gerusalemme non esisteva più e la classe dirigente di Israele era ormai decisamente contraria al gruppo cristiano.
Se il dramma della storia si ripete, deve anche ripetersi la coraggiosa testimonianza dei fedeli, con la loro resistenza pacifica, fondata unicamente sulla fiducia in Dio. Giovanni invita alla sapienza perché le scelte dei cristiani, spiritualmente mediocri, non erano guidate dalla fedeltà al vangelo di Cristo, esorta alla costanza, perché dovevano essere comuni i casi di defezione; non invita tuttavia a ritirarsi dal mondo, ma piuttosto ad una coerenza convinta, anche fino alla morte. L’Apocalisse, dunque, mira a infondere speranza in mezzo alla persecuzione e a rilanciare l’impegno morale dei cristiani, non lasciandosi vincere dalla tentazione del sincretismo e del compromesso.
Proprio per ottenere questo obiettivo di incoraggiamento e di rafforzamento della fede, l’Apocalisse, in quanto «rivelazione di Gesù Cristo» (Ap 1,1), è fondamentalmente celebrazione della Pasqua, inno liturgico e annuncio della risurrezione avvenuta, evento centrale della storia di salvezza, anello di congiunzione fra l’inizio e la fine, passaggio necessario dalla maledizione del peccato alla benedizione della vita con Dio.
Auguro a ciascuno di voi in questo Natale di rinnovare la vostra fede nel Signore, nell’Agnello che è colui che dà senso alla nostra vita. Guardando a Lui, e ricevendo da Lui l’energia, la forza, anche noi possiamo trasformare la nostra vita in offerta sacerdotale, in sacrificio sacerdotale dedicato a Lui.

Don Gianni Carozza