Dove abita Dio?

Architettura e spazi del Sacro

(In: B. Forte, La bellezza di Dio, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo 2006, 374-380)

1. La scrittura della luce In un testo, le cui conseguenze per la storia dell’arte difficilmente saranno esagerate, il Concilio Costantinopolitano IV nell’870 conferma la condanna dell’iconoclastia pronunciata dal Niceno II (787), affermando che “quanto il discorso (lógos) dice in sillabe (en syllabé) la scrittura in colori (è en krómasi grafé) lo annuncia e lo rende presente” (DS 654). Il collegamento fra il “sillabare del lógos” e la “grafia dei colori” non sorprende chi consideri come nella tradizione orientale l’iconografo non sia colui che dipinge, ma colui che “scrive” l’icona: la “scrive”, precisamente perché si serve di linee e di colori. Come la linea delimita lo spazio e circoscrive una forma, così fa la lettera dell’alfabeto o il disegno dell’ideogramma: la linea dà forma allo spazio, lo in-scrive. L’icona in quanto spazio “in-formato” è “scritta”. Il colore dà luminosità alla forma così definita, facendo emergere in essa dalla tenebra indefinita lo splendore della luce originaria. La linea – in quanto limita e circoscrive – è “kènosi”, il colore – in quanto illumina e irradia – è “splendore”. Mentre la linea definisce la separazione, il colore manifesta l’unità fra il Tutto ed il frammento: grazie alla loro combinazione, il Tutto può offrirsi nel frammento e il frammento ospitare la totalità evocandola. È così che la luce in-scritta assume forma e può offrirsi come evento di bellezza. In un simile evento il Tutto si fa presente nel frammento in un modo che non confonda i due termini, ma faccia dell’uno la cifra e dell’altro: in tal senso, la bellezza della forma è insieme “kenosi dello splendore” e “splendore della kenosi”.

2. L’architettura come arte La misura della non confusione di questi due elementi – nell’irrinunciabile non separatezza – è la misura dell’arte: questa misura può dirsi raggiunta non tanto quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più nulla da togliere, sul confine della leggerezza della evocazione simbolica e non su quello della pesantezza della rappresentazione realistica. È precisamente a questo gioco di linea e di colore, di cifra e di simbolo, che si presta con singolare proprietà l’architettura: l’architetto scrive con la forma e il colore, con la delimitazione dello spazio e il gioco della luce, in una sorta di “trasgressione simbolica”, che dice tacendo e varca la soglia fra il finito e l’infinito senza violarla. L’architettura è veramente una “scrittura della luce”! Proprio così, gli architetti rendono la bellezza abitabile: abitare l’arte sarà per essi realizzare una forma dello spazio in cui la necessaria riduzione dell’infinitamente vasto si esprima come raccoglimento rispettoso del tutto, e conseguentemente come “kénosi dello splendore” e “splendore della kénosi”, come verbo abbreviato della bellezza (non a caso “bello” viene dal latino medioevale “bonicellum” = “piccolo bene”, “bene abbreviato”: e non a caso un teologo come Tommaso d’Aquino concepisce la bellezza a partire dal Cristo, il Verbo abbreviato nella carne!). Quanto più equilibrato sarà il rapporto che l’architetto artista creerà fra la pesantezza della forma e la levità della luce, tanto più l’architettura si esprimerà in forme abitabili come luogo di bellezza.

3. La kénosi e lo splendore L’architettura, forma dello spazio abitata dalla luce, proprio in quanto è tale si offre come una realizzazione singolare del gioco di contrazione e di splendore, con cui l’immaginario biblico concepisce l’atto creatore: nel racconto dell’opera dei sei giorni, culminante nel riposo divino dello Shabbat, lo spazio appare quale il risultato del “ritrarsi” del Creatore in se stesso perché la creatura esista, secondo la dottrina giudaico-cabalistica dello “zim-zum”, o del divino contrarsi. Analogamente accade – secondo la fede cristiana – nell’annientarsi del Figlio sulla Croce, perché la Sua kénosi, abbreviazione dell’infinito amore, dia vita piena alle creature di Dio. Se frutto della kènosi divina è lo spazio, lo splendore del Sabato ebraico – anticipo d’eternità, unica delle realtà create di cui è detto che è santa – e quello del Risorto a Pasqua segnalano nel dinamismo del tempo l’impronta della vita eterna: la forma dello spazio è fatta per essere abitata dallo splendore del tempo, riflesso umile dell’eterno divenire della vita divina. Proprio così l’architettura – intesa come l’opera volta a far “abitare lo spazio”, plasmando la forma nel suo rapporto con l’irradiarsi della luce ad essa impressa dagli abitatori del tempo – può costituire un singolare stimolo a ricordare come solo lo splendore originario vivifichi veramente lo spazio, pervadendolo col “gemito della creazione” per superarne la costitutiva caducità, e come dunque la grande sfida posta all’architetto – artista non sia quella di fuggire le forme che necessariamente delimitano, ma quella di abitarle portando in esse l’impronta, la nostalgia e l’attesa della bellezza eterna.

4. Architettura sacra In tal senso, l’architettura volta a far abitare la forma dello spazio con lo splendore della luce divina, l’architettura “sacra”, non è che preparazione e dilatazione della liturgia, intesa come l’evento in cui l’eternità viene a prendere dimora nel tempo. L’architetto, “scrittore” di un tale spazio, è una sorta di “pontifex”, di liturgo che realizza nelle forme contratte del mondo l’incontro fra il tempo e l’eterno: gli edifici che egli costruisce sono come dei “ponti per giungere alla Gloria” (“ponts per a arribar a la Glória”). Così affermava il grande artista dello spazio e scrittore della luce, Antòn Gaudí (cf. I. Puig Boada, El pensament de Gaudí. Compilació de textos i comentaris, Editorial La Gaya Ciència, Barcelona 1981: le frasi di Gaudì qui richiamate sono tratte da quest’opera), riconoscendo nell’opera dell’architetto nient’altro che un’umile collaborazione al Creatore, l’Artista eterno: “Coloro che cercano le leggi della natura per conformarvi nuove opere collaborano col Creatore … Perciò, l’originalità consiste nel tornare all’origine”. La forma architettonica ideale, allora, è la più vicina allo sviluppo spontaneo dell’ambiente voluto dal Creatore del mondo: “La realizzazione di una cosa sta nel porne la legge in accordo con quella della creazione”. L’ambiente che ne risulta è veramente uno spazio per abitare l’arte: in esso tutto si corrisponde, perché la luce e la forma si incontrano armonicamente. “La luce deve essere giusta, né troppa, né poca, poiché tanto l’una come l’altra accecano”. I colori – come quelli della liturgia latina – devono essere “netti e inconfondibili, i meglio appropriati per essere distinti bene a distanza”. Chi entra in uno spazio creato dall’uomo secondo questi criteri dovrà poter assaporare la stessa armonia che c’è nello spazio originario plasmato da Dio, e la continuità fra l’ambiente interno ed esterno dovrà assicurare la qualità della vita per tutti, d’una vita che abiti il tempo gustando già qualcosa della bellezza dell’eternità.

5. Levità e pesantezza Le forme dello spazio plasmato dall’uomo non dovranno allora catturare la luce, ma servirla: è la luce l’icona dello splendore, che deve pervadere e plasmare dal di dentro la forma. In architettura, un’opera d’arte è tale se in essa si esprime la forma senza vanificare il colore e il colore senza vanificare la forma, come avviene invece nella pesantezza del “kitsch”. Un’architettura “lieve” è quella capace di esprimere nel frammento l’intensità del Tutto, evocando la totalità senza catturarla nelle maglie del disegno: in essa la linea e il colore si inabitano in modo tale che la pesantezza dello spazio chiuso non impedisca alla luce di attraversare la forma, e la forza del colore non risolva in sé in una indebita confusione ogni determinatezza spaziale. Proprio così, un’opera di architettura può divenire riflesso della divina bellezza: e questo non in base al motivo più o meno “sacro” che essa voglia esprimere, ma in base alla levità dell’evocazione, alla sobrietà della forma, alla purezza della luce, combinate in un gioco di discrezione e di eleganza assolute. Un ambiente così plasmato è tutto e solo arte da abitare: un’arte che – in quanto anticipo d’eterno – non può essere privilegio di pochi. Anche i poveri hanno diritto alla bellezza: ecco perché non è solo lo spazio interno, ma anche quello che esternamente si offre sul pubblico e sul comune che va concepito secondo questi criteri. Abitare l’arte deve essere compito di tutti gli artisti e diritto di tutti gli abitanti della grande casa che è il mondo.

6. Il tempio, spazio tagliato per Dio Nella concezione ebraico-cristiana spazio sacro sarà allora quello capace di evocare e invocare la bellezza di Dio, frammento in cui il Tutto si offre e rende possibile l’altrimenti impossibile passaggio dal linguaggio cifrato delle forme del mondo a quello silenzioso e indicibile della forma celeste. Tagliare nel teatro del mondo un simile spazio per la gloria di Dio, edificare il “tempio”, nel senso proprio e originario di luogo “tagliato” (tempio da “témno” = taglio), separato per Dio, sì da essere la cella della Sua bellezza, la casa dell’incontro, il santuario dell’adorazione che trascende ogni conoscere, è stata l’inesausta ricerca che ha ispirato l’invenzione delle architetture della fede. Frutto di questo tentativo incessante di tagliare uno spazio per il divino nella storia dell’arte occidentale è – come afferma Cesare De Seta nel suo bel libro Le architetture della fede (Bruno Mondatori, 2004) – “un lungo percorso alla fine del quale si perviene alla conoscenza e alla verità di Dio fatto uomo: lì, nel centro, c’è la luce e la verità”. Nelle opere di ieri e di oggi si lascia intravedere un ritornante movimento di trascendenza verso il Mistero, che nel silenzio delle forme educa a dire all’Eterno parole d’amore, e ad ascoltare negli spazi sacri, simbolo denso ed efficace degli spazi dell’anima, la Parola e il Silenzio di Dio. Su questa scrittura della luce, che è l’architettura, vale la pena di meditare a lungo, specialmente per una cultura come la nostra plasmata da secoli da opere belle nel campo dello spazio dedicato al culto, per imparare la lingua delle forme architettoniche come possibile e stupefacente lingua del Sacro, soglia che introduca all’evento capace di cambiare il cuore e la vita: l’incontro col fuoco divorante dell’eterno Amore, apparso nella storia una volta e per sempre in Gesù Cristo, l’Alleanza in persona, il Solo in cui il cielo è sceso in terra e vi ha messo radice, perché le forme della terra anticipassero gli spazi del cielo, e la scrittura dello spazio nel presente rinviasse allo spazio senza spazio e al tempo senza tempo in cui a scrivere nella luce dei cuori sarà per sempre la mano dell’Eterno…

7. Una conclusione aperta… Una poesia di Marc Chagall, il grande maestro dei colori, può servire da conclusione aperta a queste riflessioni: “Mon Dieu, – afferma l’Artista – pour l’autre clarté / Que tu as donnée à mon âme / merci / … Mon Dieu, la nuit est venue / Tu fermeras mes yeux avant le jour / Et moi je peindrai de nouveau / Des tableaux pour toi / Sur la terre et le ciel” (Pour l’autre clarté, 1965, in Marc Chagall 1887-1985, Editions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1998). Chagall intende qui la propria opera come un atto di restituzione, un movimento di gratitudine davanti al dono ricevuto dall’alto: la sua pittura non è che l’espressione di questo riconoscimento che si fa riconoscenza, glorificazione dell’Eterno. A tal punto egli avverte la profondità di questa vocazione da immaginare la vita eterna come la continuazione – sia pure al livello più alto – di un simile compito: anche nell’eternità divina egli dipingerà “di nuovo” – o meglio “in modo nuovo” – tavole per l’Eterno, sulla terra e nel cielo. La forza di questa poesia / preghiera – scaturita dall’anima di un Maestro del colore – fa comprendere come la scrittura della luce nelle forme delle arti figurative o dell’architettura venga intesa dall’artista come anticipo e splendore d’eternità. Volendo estrarne un principio ispirativo si potrebbe dire che la forma tracciata ha bisogno di essere illuminata da uno splendore che non solo la raggiunga dall’esterno, ma in qualche modo si irradi dal suo interno, quasi luce che restituisce la luce. In particolare, la forma architettonica che corrisponda all’intuizione di Chagall non sarà quella che crea la luce, ma quella che le obbedisce, che si fa plasmare da essa, sì da lasciarsene trapassare ed irradiarla con una levità che faccia dell’inevitabile pesantezza della struttura una sorta di scrittura, cifra che parla ed accoglie trasmettendo lo splendore dal profondo. Un ambiente così plasmato è tutto e solo arte da abitare: un’arte che – in quanto anticipo della Gerusalemme eterna – non può essere privilegio di pochi, ma – com’è nello spazio sacro delle nostre Chiese – casa di tutti, tenda d’alleanza del popolo di Dio, che noi siamo, con Lui e fra di noi, per la Sua gloria e la qualità della vita di tutti.

Bruno Forte